L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani Zeid Ra’ad al Hussein ha affermato che il consigliere di stato e ministro per gli Affari esteri della Birmania Aung San Suu Kyi , leader de facto del paese, avrebbe dovuto dimettersi per la violenta campagna militare contro la minoranza musulmana dei Rohingya portata avanti dall’esercito del Myanmar.
Zeid Ra’ad al Hussein ha detto alla BBC che i tentativi della vincitrice del premio Nobel per la pace di giustificare quelle violenze sono stati “profondamente deplorevoli”.
“Aveva il potere per intervenire – ha detto Hussen – Avrebbe potuto almeno rimanere in silenzio o, ancora meglio, avrebbe potuto dimettersi. Non c’era bisogno che lei fosse il portavoce dell’esercito birmano, non doveva dire che le violenze sui Rohingya erano montate, parlando di disinformazione”.
Mercoledì 29 agosto, il comitato del Nobel ha affermato che la signora Suu Kyi non può essere privata del premio per la pace che le è stato assegnato nel 1991.
Questi commenti dell’Alto Commissario Onu per i Diritti Umani arrivano a pochi giorni dalla pubblicazione di un report delle Nazioni Unite che chiede alla giustizia internazionale di indagare per genocidio e crimini contro l’umanità il capo dell’esercito del Myanmar e altri cinque alti comandanti militari.
Il rapporto, basato su centinaia di interviste, è la più forte condanna da parte dell’Onu delle violenze perpetrate contro i Rohingya. Vi si legge che le tattiche dell’esercito sono state “coerentemente e grossolanamente sproporzionate rispetto alle attuali minacce alla sicurezza”.
Il documento è molto critico anche nei confronti di Aung San Suu Kyi, accusata di non aver agito per fermare la violenza. La relazione chiede che la leader birmana venga deferita alla Corte penale internazionale.
Aung San Suu Kyi è stata molto criticata a livello internazionale per il suo comportamento giudicato indifferente – quando non propriamente ostile – nei confronti dei musulmani rohingya, una minoranza religiosa perseguitata nel paese (qui lo speciale di TPI.it sulla crisi dei rohingya).
Dopo lo scoppio delle violenze ad agosto 2017 tra le forze di sicurezza birmane e alcuni miliziani di un gruppo paramilitare vicino ai musulmani rohingya, molte organizzazioni non governative hanno denunciato che l’esercito birmano aveva messo in atto un’“operazione di pulizia” contro questa minoranza religiosa, con omicidi, stupri e incendi messi in atto contro i rohingya e i loro villaggi.
Queste azioni hanno causato centinaia di morti nello stato di Rakhine, in Birmania, e hanno dato inizio a un esodo che ha portato nei mesi successivi oltre 700mila musulmani rohingya ad attraversare il confine con il Bangladesh.
Nel suo primo discorso sull’argomento, a settembre 2017, Aung San Suu Kyi ha parlato per la prima volta al paese dopo l’inizio della crisi dei rohingya. In quell’occasione ha detto che il suo governo non teme lo “scrutinio internazionale” sulla crisi dei rohingya.
Suu Kyi ha negato che ci siano stati scontri o “operazioni di pulizia” nello stato birmano di Rakhine nelle settimane immediatamente precedenti. Ha dichiarato inoltre di soffrire profondamente per la sofferenza di “tutte le persone” nel conflitto e che la Birmania “si sta impegnando per una soluzione sostenibile (…) per tutte le comunità in questo stato”.
Molti leader internazionali, tra cui il segretario generale Onu Antonio Guterres, il presidente francese Emmanuel Macron, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e il segretario di stato statunitense Rex Tillerson, hanno espresso disappunto per la presa di posizione di Suu Kyi.
Per la sua scelta di non riconoscere le violenze dell’esercito nei confronti dei rohingya, ad Aung San Suu Kyi sono state revocate sette onorificenze.
La leader birmana ha imputato le violenze al terrorismo, non ai militari, e ha criticato la comunità internazionale per l’attenzione al tema.