Il giornalista Valerio Nicolosi si trova a bordo della nave della Ong spagnola Proactiva Open Arms, che ha recuperato i cadaveri di una donna e di un bambino al largo delle coste libiche, e salvato Josefa, l’unica sopravvissuta al naufragio nella notte tra il 16 e il 17 luglio . La nave è appena salpata da Maiorca (domenica 22 luglio). Ecco il suo diario di bordo per TPI.it
“Valerio ho perso i tuoi contatti, li ho persi poco fa”. Me lo dice Mohammed, 17 anni e partito da solo dal Gambia più di due anni fa.
È nervosissimo, gli operatori della Croce Rossa spagnola mi chiedono di dirgli che va tutto bene. Sorrido, me lo abbraccio e gli dico di non preoccuparsi, che ora gli scrivo tutto di nuovo. A quel punto ho ricominciato a respirare normalmente, a sorridere.
Poco prima infatti ero risalito da poco a bordo della nave dopo aver fatto foto e video dello sbarco degli 87 ragazzi che erano sulla Open Arms. Sento che alla radio mi cercano “urgentemente” a terra perché Mohammed chiede di me. Corro dalla coperta al ponte e poi giù di corsa per la scala. Il personale della Croce Rossa mi dice che Mohammed ha chiesto di me, vuole parlarmi ed è nervoso. Provo a pensare cosa possa essere successo negli ultimi 5 minuti, quando con la mano da lontano mi salutava vestito “come nuovo” e sorridente.
Mohammed viaggia solo, a bordo era l’unico che non parlava arabo, ma inglese e due lingue gambiane. Per forza di cose si è trovato un po’ isolato rispetto agli altri e quindi con il resto dell’equipaggio abbiamo cercato di farlo sentire a proprio agio.
Mohammed si è affezionato a me, abbiamo fatto un’intervista lunga che vorrei far uscire nelle prossime settimane in cui mi racconta del lungo viaggio, delle minacce, delle botte che ha ricevuto perché la sua famiglia non poteva pagare il riscatto, delle settimane intere con un bicchiere d’acqua al giorno e un pasto misero ogni due giorno. Mi ha raccontato dei contrabbandieri al confine Algeria-Libia e mi ha detto che era preoccupato di dire che aveva pagato dei contrabbandieri per passare un confine militarizzato.
Con Mohammed giorno dopo giorno siamo diventati molto amici. Sul ponte la notte faceva freddo e così gli ho dato un giacchetto di pile per coprirsi meglio. Ieri, prima di sbarcare gli ho regalato le mie scarpe da ginnastica. Insieme a quelle gli ho dato dei calzini e una t-shirt per ricordo. Gli ho chiesto di mantenermi informato dei suoi spostamenti e se avesse avuto bisogno di farmelo sapere.
Non erano favoritismi, ma solo la presa d’atto di un ragazzo molto giovane che nonostante abbiamo attraversato da solo l’Africa, sia stato sequestrato diverse volte e per due volte abbia affrontato il mare con un gommone, non ha malizia né scaltrezza. È buono e tranquillo e questo quando ti ritrovi da solo in Europa può non essere un punto a tuo favore.
Lui è stato il primo che abbiamo preso dal mare quella notte, era tra quelli che non voleva tornare di nuovo in mano ai libici e ha preferito buttarsi in mare per essere lasciato là a morire. A 17 anni.
È il ragazzo agitatissimo che ho abbracciato dopo averlo soccorso e gli ho detto: “Tranquillo, siamo una nave spagnola, sei salvo, sei in Europa”. Lui non lo ha dimenticato, me lo ricordava ogni giorno, ogni volta che parlavamo.
Per raccontare quest’ultima giornata, però, devo tornare indietro fino alle 5:30, quando la sveglia suonava da un po’ e ho deciso di alzarmi. Il freddo sul ponte era incredibile e le correnti provenienti dall’Atlantico facevamo muovere la barca in continuazione.
Essendo molto a ovest il sole tardava a sorgere e i ragazzi hanno iniziato a pregare con il buio totale. La “terra” in quel momento era solo qualche lucina sparsa qua e là, ma la curiosità da parte di tutti era forte.
Con i primi raggi del sole un’ondata d’euforia e felicità ha invaso la nave e le preghiere, gli abbracci, i ringraziamenti si sono moltiplicati.
È stato in quel momento che ho dato scarpe, calzini e maglietta a Mohammed. Insieme alla felpa che gli avevo regalato nei giorni scorsi era pronto per lo sbarco.
Gli ho detto proprio così: “Adesso sei pronto per andare, tu stai tranquillo che poi ci rivedremo”.
Mi fermerei a parlare con lui di più, ma le prime ore del giorno sono quelle in cui lavoro di più e quindi inizio a fare foto e video sfruttando il rosso che ci accompagna da est.
Dopo un paio d’ore entriamo in porto. La Guardia Civil ci scorta fino al molo dove ci aspettano oltre alla già citata Croce Rossa, Frontex, Unhcr, Save the Children e Polizia nazionale spagnola.
Il medici salgono a bordo, verificano che non ci sono casi di malattie infettive e a quel punto inizia lo sbarco. Prima i minori non accompagnati, tra cui Mohammed, poi quelli accompagnati e poi tutti gli altri.
All’inizio (quindi anche quando è sceso Mohammed) la procedura era abbastanza rigida, ma piano piano che scendevano i ragazzi le formalità si sono disciolte e gli abbracci a tutti noi sono diventati normali. La Guardia Civil ha provato a opporsi, ma senza troppa convinzione perché quando hanno visto che “rompere la procedura” voleva dire darsi un ultimo abbraccio hanno lasciato correre.
Al termine dello sbarco approfittiamo per farci una foto di gruppo della Open Arms. Un gruppo di persone che per 19 giorni ha condiviso la vita in una barca di 34 metri. Se non ci fosse stata una grande volontà di tutti ad essere lì probabilmente ci sarebbero state discussioni, incomprensioni…e invece no.
Siamo partiti e tornati con il sorriso, anzi, siamo sbarcati più sorridenti di prima come mi fa notare Laura, l’addetta stampa della Ong.
Segue la conferenza stampa sulla missione e il tema è inevitabilmente quello dello sbarco ad Algeciras, dove una volta finiva il mondo, allungando di 60 ore il viaggio della nave come se fosse una procedura standard e non “umanitaria”.
Io e Nicola Fratoianni scappiamo a fine conferenza. Abbiamo l’aereo alle 17:15, io vado a casa e lui deve partecipare alla trasmissione “In Onda” dove vengono mandate le mie immagini del soccorso in mare, soprattutto la sequenza “No Libia, no Libia, Libia pam pam pam” con il segno del fucile.
“Certo che questi, se stessero a casa loro…” è il tassista che mentre mi accompagna a casa ascolta la radio che parla di immigrazione. Ho pensato che avevo due possibilità: lasciar correre o attaccargli il pippone su quello che avevo appena vissuto.
Opto per la seconda e finisce con uno sconto sulla corsa e il saluto: “Grazie, sentire certe cose in prima persona ti fa cambiare idea”. Gli ho raccontato di chi in Libia veniva torturato ed è stato salvato dalla famiglia perché ha pagato 100 euro.
Una vita vale 100 euro, nel 2018. La corsa in taxi è costata la metà.
Sono le ultime forze di un viaggio lungo e intenso che mi fa tornare a casa con tante emozioni oltre che con immagini che lasciano il segno.
Foto, video e racconti “orali” li porterò con me di nuovo da settembre alle presentazioni del libro (R)Esistenze.
Ringrazio tutta la redazione di TPI che mi ha ospitato con questi racconti, in particolare il direttore Giulio Gambino, Clarissa Valia e Laura Melissari che si sono occupate in prima persona del diario.
Alla prossima e grazie a chi ha avuto la pazienza di leggermi.
Quindicesimo giorno – giovedì 9 agosto, ore 12.00
Ci siamo quasi.
Dopo la botta psicologica che ci è arrivata quando è stato comunicato il porto di sbarco praticamente a Gibilterra, il morale è risalito piano piano. Un po’ perchè quando ti svegli c’è comunque un lavoro da portare avanti e per me oltre a dare una mano a bordo come posso è quello di raccontare con i video, le foto e le parole quello che succede, e un po’ perchè comunque i ragazzi a bordo ci hanno detto: “per noi basta che sia Europa e non Libia”.
Effettivamente se penso a quanto siano stati lunghi i loro viaggi le 48 ore in più sono davvero poco, anche se arrivano quando sono tutti fisicamente abbastanza provati. Ho portato avanti il lavoro dicevo. Ho continuato a fare interviste video, voglio documentare e raccontare quello che hanno passato in Libia, i racconti disumani che ho ascoltato, le motivazioni che hanno portato ad andare via dal proprio Paese.
Oggi in particolare ho realizzato un’intervista “fiume”. Oltre un’ora di racconto in cui S., 25 anni Sudanese del Darfour quasi a fine intervista si è messo a piangere. Poco prima gli si era spezzata la voce e poi sono iniziate le lacrime. Con grande dignità si è coperto, asciugato e ha continuato. Gli ho detto: “Se vuoi ci fermiamo”, ma lui ha continuato senza prendermi in considerazione.
“Quello che voglio è una vita normale, voglio che nessuno provi ad uccidermi ma vorrei farlo in Darfour, vicino alla mia famiglia e soprattutto vicino a mia sorella più piccola”. Anche lui è tra quelli che quando hanno visto i gommoni di salvataggio hanno preferito buttarsi in acqua perv invece che tornare in Libia e costringere la propria famiglia a pagare per loro.
Lui è un perseguitato politico, gestiva una scuola di inglese e informatica e provava a fare attivismo e a dare assistenza alle persone. Il governo lo ha messo in carcere e una volta uscito hanno iniziato a perseguitarlo sparando tra la folla o cercando di investirlo con la macchina. Non ha avuto molta scelta, sarebbe morto nel giro di poco tempo.
S. non mangia da due giorni e dice che non ne ha bisogno. È molto preoccupato di quello che troverà a terra e si è chiuso in un silenzio che interrompe solo per l’intervista. Mi dice che ha passato anche 7/8 giorni senza mangiare quindi non è un problema, ma io cerco di convincerlo. Proprio oggi è arrivata una motovedetta spagnola che ha portato i medicinali richiesti e il cibo per
un giorno. Allo scambio assistono tutti divertiti ma a distanza, e una volta finito si sciolgono, battono le mani per ringraziare e salutano l’equipaggio della guardia costiera che ricambia con gusto.
“Ma perchè non vediamo la Spagna?” mi chiede M. di 17 anni e in viaggio da oltre 2. Effettivamente c’è molta foschia e ieri sera gli ho detto che oggi avremmo visto la terra nel primo pomeriggio, perchè avremmo navigato vicino alla costa. Lo tranquillizzo, ogni tanto scatta un momento di panico generale perchè pensavano che stessimo tornando in Libia.
Per fortuna arrivano i delfini e scompigliano tutto! Loro non li hanno mai visti e impazziscono a vedere questi pesci così grandi che saltano e giocano con le onde della barca. La scena dura qualche minuto e con i delfini scivola via anche lo spettro della Libia.
Domani è il grande giorno per loro. Toccheranno la terra europea se pur nel punto più vicino all’Africa. Da lì inizierà una nuova vita fatta di burocrazia, centri spesso tenuti male che di frequente portano ai rimpatri. Però per il momento le aspettative sono alte.
Noi invece ci divideremo. A bordo della Open Arms resterà una parte dell’equipaggio che prenderà la direzione di Barcellona per fare il cambio di team e rifornimenti mentre io, Nicola Fratoianni, il mio collega Juan e i due pompieri di Valencia sbarcheremo per tornare ognuno a casa propria. È la fine di una bella avventura sia umana che professionale.
A caldo è difficile tirare le somme, soprattutto dopo 19 giorni di navigazione, un caso diplomatico con la Asso 28, una corsa contro il tempo con la guardia costiera libica per dei soccorsi e un soccorso in piena notte di 87 persone.
Stanchi torniamo a casa sapendo che questa è stata un’esperienza che ci ha arricchito. Ora, dopo un anno umanamente travagliato, non vedo l’ora di tornare a casa da mia moglie e poter staccare per le nostre vacanze. Finite quelle si ricomincia e la prossima fermata (forse) sarà di nuovo quella della Striscia di Gaza.
Quattordicesimo giorno – martedì 7 agosto, ore 16.00
Il governo spagnolo ha deciso di mandarci là dove una volta finiva il mondo, Gibilterra.
Dopo molti giorni di attesa è arrivata la notizia via mail: la Open Arms sbarcherà a Algeciras, il porto spagnolo sullo Stretto di Gibilterra, a 14 km dalla costa marocchina e quindi dall’Africa. La reazione sul ponte è stata di gelo di totale. Eravamo a poche miglia da Mallorca e a meno di 24 ore da Barcellona e ora la nave deve invertire la rotta e navigare per altre 2 giorni e mezzo.
“Chiediamo un altro porto più vicino, per noi andrebbero bene Mallorca, Barcellona e Valencia. Non abbiamo medicinali e cibo a sufficienza per arrivare fino ad Algeciras” scrive il capitano alle autorità marittime che però al telefono dicono che possono inoltrare la richiesta ma è la Guardia Civil che sta gestendo tutto e non credono che sarà cambiato il porto. In tal caso una motovedetta spagnola ci raggiungerà per portarci i rifornimenti.
Per noi è un problema perchè logisticamente questo porto è un disastro: è una piccola cittadina di fronte al Marocco, non ha treni, non ha aerei. Tutto è sviluppato intorno al porto commerciale ma per il resto è davvero un posto isolato. Credo però che il problema maggiore sia per i ragazzi che abbiamo recuperato dal mare.
Mi dice Juan, il mio compagno di cabina e fotografo di Reuters Spagna, che li vicino la Guardia Civil ha organizzato un campo per la prima accoglienza dei migranti. Non riporto le sue parole ma il concetto è che è un posto poco “accogliente” dove i tanti migranti che stanno arrivando dall’Africa sono messi per alcuni mesi in attesa della risposta per l’asilo.
Dopo un viaggio che è durato anche due anni attraverso l’Africa si ritrovano a 14km da quella costa, più vicini di quando li abbiamo recuperati. Questa mattina gli abbiamo spiegato dove saremmo andati e in realtà loro erano più sereni di noi. L’unica domanda è stata: “Ma è Spagna?”. Questo per loro è la cosa più importante. L’unica analisi che posso fare “a caldo” è che la Spagna dopo appena 3 sbarchi ha cambiato idea sulla politica dell’accoglienza e sta cercando di gestire in modo massivo il flusso.
Per massivo intendo dei grandi agglomerati isolati, una sorta di grandi parcheggi temporanei dove per forza di cose i servizi minimi sono difficili da garantire.
C’è da aggiungere anche che i 3 porti che la Open Arms ha chiesto sono di 3 città molto turistiche ed essendo ad Agosto credo che gli affari abbiano vinto sulla solidarietà. Il morale comunque è basso e la stanchezza non aiuta. Aspettiamo le provviste e cercheremo di far passare questi due giorni.
Tredicesimo giorno – domenica 5 agosto, ore 16.00
Cambiamo rotta, si torna!
Ancora non sappiamo che porto ci accoglierà, ancora la burocrazia ci deve far sapere ma quello che è certo è che la rotta della Open Arms punta verso nord. Abbiamo aspettato l’Acquarius perchè se fossimo tornati indietro prima non ci sarebbe stata nessuna barca umanitaria nella zona SAR, sia libica che italiana.
La mattina inizia con un alba bellissima e la consueta preghiera dei musulmani a bordo. Mi dicono che pregano per ringraziare Dio di averci fatto incontrare e di averli salvati. Poco dopo la giornata continua con un evento strano: un aereo militare spagnolo, della missione Sofia, sorvola la Open Arms, gira tre volte attorno alla barca e poi tira dritto verso un punto differente la nostra rotta.
Quell’aereo era di pattugliamento e la cosa più probabile è che ci stesse indicando qualcosa quindi Marc Rieg, il capitano, inverte subito la rotta e punta nella direzione dell’aereo. Per un paio d’ore cerchiamo nell’orizzonte qualcosa ma non c’è nulla oltre a qualche peschereccio. Io approfitto per
riposare mezz’ora ma Juan Molina, il collega di Reuters e compagno di cabina, mi chiama per dirmi: “Valerio c’è qualcosa all’orizzonte, sembra un gommone”. In pochi secondi sono su con la videocamera ed effettivamente quello che si vede è una cosa molto simile ad un gommone mezzo
affondato. Per le persone presenti nella missione precedente il pensiero va subito a Josefa, la donna salvata due settimane fa a sud di Lampedusa e trovata insieme a due corpi senza vita, e un’angoscia sale.
Più ci avviciniamo e più appare chiaro che è un gommone abbandonato ma per fortuna una volta sul posto non ci sono corpi galleggianti o altro. Dopo i racconti dei ragazzi che abbiamo salvato la paura era veramente tanta.
A questo punto siamo vicinissimi alle 24 miglia che delimitano le acque di competenza libiche, ovviamente evitiamo di oltre passare quella linea immaginaria che però potrebbe portare problemi reali visti i pessimi rapporti tra la organizzazione Proactiva Open Arms e la Guardia Costiera Libica. Ci allontaniamo quindi e invertiamo la rotta. Il capitano insieme al capo missione Riccardo Gatti scende sul ponte di poppa dove ci sono i ragazzi che abbiamo soccorso in mare e annunciano: “Vi comunichiamo ufficialmente che questa barca sta lasciando la zona SAR libica, andiamo verso nord. Ora alle vostre spalle avete la Libia e davanti a voi (anche se un po’ lontana) l’Europa.”
Esultano, urlano, sono felici. Questo ripaga la fatica anche se poi stiamo cercando di fargli capire che in Europa non sarà tutto facile per loro, anzi.
Al momento non abbiamo un porto e questo fa capire che clima ci sia intorno ai migranti. Stiamo aspettando delle risposte ed essendo fine settimana sarà difficile ottenerle. Perchè non parliamo di una barca normale ma di una barca umanitaria con 87 persone migranti a bordo.
Diciamo che i primi a non voler la Open Arms sono stati i libici. Hanno chiamato poco dopo il recupero del gommone e hanno detto: “Se serve qualcosa fateci sapere, potete andare dove volete ma non venire in Libia.”
Diciamo che la chiamata è stata insolita ma essendo questa zona SAR libica e volendosi legittimare con la comunità internazionale hanno seguito la procedura e chiamato. Hanno specificato che non avrebbero accettato la Open Arms nel porto di Tripoli e questo credo che sia dovuto a quello che
dicevo prima, il pessimo rapporto tra i due. Il pomeriggio scivola via con le lezioni di spagnolo che l’equipaggio da ai ragazzi, si cerca di ammazzare il tempo facendo cose costruttive. Loro si divertono, chiedono di poter andare a Barcellona perché sanno che è una città che accoglie i migranti. Gli spieghiamo che siamo in attesa e che è ancora lunga, abbiamo un paio di giorni di navigazione prima che la destinazione diventi un problema.
Dodicesimo giorno – sabato 4 agosto, ore 14.00
Ho avuto bisogno di un giorno di tempo per assimilare, ragionare, capire.
Il fatto è che il soccorso e recupero di notte fa paura sia a noi ma soprattutto a loro. Immaginate un gommone di 10 metri, di quelli super economici comprati in Cina (a riguardo lessi un bell’articolo su Middle Est Eyes qualche tempo fa) con un motore di 40 cavalli e 87 persone a bordo. Due giorni in mare di cui le ultime 10 ore con il motore rotto e il gommone alla deriva. Arriva la notte, la luna e le stelle illuminano ma non c’è niente di romantico in questa situazione. Poi all’improvviso arrivano due gommoni a tutta velocità, luci sui caschi rossi, le persone a bordo parlano inglese e chiedono come stanno, quante donne e quanti bambini ci sono. Per chi negli ultimi mesi è stato abituato a essere torturato il primo pensiero è che siano gli ennesimi che lucreranno sulla loro vita. Chi è in salute e con una famiglia in grado di pagare sopravviverà, gli altri no.
Per questo si sono buttati in mare, per questo mi hanno spiegato che questa volta avrebbero preferito morire. Parlo con alcuni di loro e mi raccontano che è la seconda, terza, quarta volta che affrontano il mare. In passato gli è sempre andata male e i libici li riprendevano per riportarli a terra e metterli di nuovo in prigione e chiedere il riscatto alle famiglie. Hanno segni di violenze addosso, su schiena, piedi, braccia ma anche il viso. Io ho avuto difficoltà a relazionarmi con loro la mattina successiva perchè sembravano altre persone, sembrava che quello che fosse successo appena 7 ore prima non fosse mai accaduto.
Ridevano, scherzavano, erano felici e ci chiedevano: “Dove andiamo? Che lingua si parla? Mi insegni qualche parola?”. Io invece ancora dovevo metabolizzare, ancora dovevo capire e farlo scivolare via. Nel libro “Il buio su Parigi” la corrispondente di SkyTg24 Giovanna Pancheri racconta un episodio a 36 ore dagli attentati al Bataclan e al risorante Petit Camboge, in cui a Place de la Republique sembrava fosse in corso un attentato. Si sentirono alcune esplosioni e la polizia entrò subito in azione sgomberando la piazza. In quel contesto noi eravamo fuori dalla piazza, ma in pochi istanti riuscimmo a entrare e Giovanna scrisse più o meno (vado a memoria) questo: “Valerio in questi casi si dimentica della persona e diventa la camera.” All’epoca mi conosceva poco ma aveva ragione, le emozioni ci sono in questi casi ma le metto in un angoletto in modo che non possano dare fastidio o possano interferire con quello che sto facendo. È l’adrenalina che le tiene là e non gli lascia spazio perchè occupa tutto il resto.
Una volta finito, quando mi rilasso, escono da quell’angolo e mi travolgono. Chi è che non ha paura del buio? E per buio intendo un luogo che non conosciamo, dove non ci sentiamo a nostro agio ma sappiamo che all’improvviso accadrà qualcosa, che sia bello o brutto. Il buio per me era perdere il contatto visivo con le persone in mare, non vederli più in quella massa nera con oltre 300 metri di profondità. Era non sentire più quel grido “Help me! Help me!” strozzato dalla paura. A quel punto il buio sarebbe stato totale.
Ho avuto bisogno di una doccia lunga, di quelle che non ti lavano solo esternamente ma ti aiutano a urlare, piangere e sfogarti. Dopo è andata meglio…le emozioni a quel punto non sono più concentrate in un punto e non fanno più male, ma sono in tutto il corpo e ti aiutano a capire quello che è successo. La camera lascia il posto alla persona, tutto torna normale.
La psicologa personale che ci assegna Proactive Open Arms mi ha scritto come stessi e se andasse tutto bene. Le avrei dovuto scrivere un messaggio lunghissimo, anche più lungo di questo, ma i mb sono pochi e servono per inviare le foto, i video, i testi. Forse le mando questo diario.
Ora i ragazzi sono sul ponte. Stanno bene e chi aveva piccole ustioni dovute dalla benzina è in cura dallo staff medico. Ho parlato con molti di loro, gli ho raccontato di Barcellona (la meta più probabile) e dell’Europa. Loro mi raccontano del loro viaggio. Studiano spagnolo, cercano di capire il suono di una lingua completamente differente dall’arabo. Il sole in questi giorni era torrido e il capo missione decide di prendere il tubo dell’acqua del ponte e legarlo alla struttura che li ripara dal sole. Si buttano tutti sotto la doccia per rinfrescarsi e approfittare per giocare un po’. Manolo, uno dei macchinisti della nave sale dalla sala macchina e si butta in mezzo a loro. Il momento è epico e rallegra l’umore di tutti.
Ora siamo ancora a largo di Tripoli. Non siamo andati via perchè sta arrivando l’Aquarius da Marsiglia, ma in sua assenza non ci sarebbe stata nessuna nave umanitaria in zona per altri recuperi. Abbiamo acqua e cibo a sufficienza, 87 persone non sono tantissime per questa nave, quindi abbiamo un po’ di margine.
Nel frattempo recuperiamo anche le forze fisiche, perchè da un momento all’altro potrebbe esserci un nuovo soccorso, d’altronde siamo qui per questo. Ancora un volta ci faremo trovare pronti, ma la speranza è che questa volta sia di giorno, quando tutto è più facile.
Chiudo con un testo che mi ha passato Giovanna Scarcabarozzi, la dottoressa di bordo, che ha festeggiato il suo compleanno proprio il giorno in cui abbiamo effettuato il soccorso in mare. Un modo “diverso” di festeggiare:
2 agosto 2018
Il mio secondo compleanno a bordo di una nave di ricerca e soccorso nel Mediterraneo inizia con una notte nera e il gracchiare della radio che ormai ci è tanto familiare. Coordinate e mandato ufficiale di ricerca seguono a breve distanza, e ancora una volta ci si prepara a una lunga nottata.
L’operazione prende vita, con il sostegno della luna che appare sulla scena e spezza la tenebra. Ci si muove con il cuore a metà tra inquietudine e speranza, mai si è certi dell’esito di un soccorso. La notte si fa complice a rendere tutto più sospeso tra sogno e realtà, e quella punta di coltello allo stomaco si fa sentire anche oggi. Il pensiero che ricorre è sempre lo stesso: quale può essere lo stato d’animo di chi si trova alla deriva in quell’immensità d’acqua, da ore che hanno il senso di un tempo infinito, strozzati in un pezzo di gomma sudicio di acqua e benzina che ti bruciano la pelle, hai bevuto acqua di mare tanta era la sete, vivrò? scomparirò qui, stanotte, e chi mai saprà?
Mi strappano a questi pensieri le manovre di preparazione, e indossando il giubbotto salvagente torno a essere un medico che si prepara ai resti di una battaglia. Stanotte il mare è stato generoso.
Tutti sono a bordo, vivi, finalmente fuori dall’inferno. Ai primi passi sulla coperta della nostra nave i fantasmi riprendono corpo, la fiamma della vita riprende nei loro occhi. L’onda dell’emozione cresce con il numero degli arrivati bordo e travolge tutti.
Ora i mezzi di soccorso sono di nuovo assicurati alla nave, e tutti i superstiti, stesi o seduti sulle assi della coperta, possono bere, stringersi in mantelli di lana azzurra, sedare la fame di due giorni e due notti in mare.
È a questo punto che il capitano, come un direttore che ha terminato di accordare la sua orchestra, ci raggiunge e dopo aver dato il benvenuto a bordo a chi mi piace considerare come un ospite d’onore, semplicemente annuncia la ricorrenza del mio compleanno. Il coro è stato impeccabile, e l’applauso una celebrazione alla vita stessa che oggi sembra aver trovato la fortuna di una buona stella.
Undicesimo giorno – giovedì 2 agosto, ore 14.00
“Chi salva una vita salva il mondo intero” recita una frase scritta nella sala macchine dell’Open Arms. La frase è su un disegno di Francesco Piobbichi, un amico e coordinatore del progetto di Mediterranean Hope, che è stato a bordo sulla O.A. alcune settimane fa ed accompagna un suo disegno in cui c’è un barcone salvato da due grandi mani che spuntano dal mare. Stanotte con la Open Arms abbiamo salvato 87 mondi (qui l’articolo con la notizia del salvataggio).
Inizia tutto velocissimamente dopo una giornata lenta e “normale”. Alle 21:53 saluto mia moglie tramite whatsapp e le dico: “Amore vado a dormire che sono stanco e domani alle 5:45 ricomincio con la guardia, sperando che sia il giorno giusto”.
Nemmeno il tempo di disconnettermi che alle 21:59 alla radio c’è una chiamata per “Open Arms” da parte di una nave che è stata contattata dalla guardia costiera libica per effettuare un recupero.
Loro ci chiedono se ne sappiamo qualcosa e ci danno le coordinate. I libici di notte non escono per fare queste operazioni quindi hanno chiamato questa barca. Pochi minuti dopo squilla il telefono di bordo ed è proprio la guardia Costiera libica. Ci chiedono se possiamo andare là e prestare soccorso. Sembra sia un gommone con circa 80 persone a bordo. Pochi istanti dopo arriva anche la comunicazione da Roma: tutto confermato.
Quello che per giorni non ha funzionato all’improvviso funziona e anche bene. Il fatto è che di notte non ci sono molte alternative alla Open Arms. Prendiamo le coordinate e in meno di 40 minuti vengono “lanciati” i due team di soccorritori con i rispettivi gommoni. Come due giorni fa ci ritroviamo di notte in mezzo al Mediterraneo Centrale ma stavolta la luna è già salita e ci illumina molto il “buco nero” in cui ci troviamo.
In meno di 40 minuti e a velocità sostenuta arriviamo ed è tutto confermato: 87 persone a bordo, tutti maschi, alcuni minori non accompagnati. Sono 84 sudanesi (tra Sudan e Sud Sudan), un siriano, un egiziano e un gambiano. All’inizio si fanno prendere dal panico, non sanno chi siamo e pensano che siamo libici. Alcuni si buttano in mare sperando di scappare o addirittura di morire prima che vengano ripresi.
La situazione si complica e iniziamo a tirare i giacchetti di salvataggio, in particolare il siriano è preso dal panico, urla solo: “Help me! Help me!” e si dimena in mare. Ci avviciniamo e spieghiamo in inglese che siamo le squadre di salvataggio della Open Arms, una ONG spagnola e che non siamo libici.
Riusciamo a recuperare il primo, gli altri si convincono piano piano e ne tiriamo su 6. L’ultimo è proprio il siriano che continua a urlare. Appena a bordo nel nostro gommone si butta a terra e dice: “Libia no, Libia no!” E fa il segno del fucile che spara. Uno dei due soccorritori del mio team si toglie il casco e gli fa vedere che ha i capelli rossi e una cresta, non siamo libici ma europei. Questo è stato il momento più commovente.
Un ragazzo che era a bordo diceva: ”Europe, Europe” e piangeva, il siriano esultava come se avesse segnato Totti al 90′ in un derby e un altro ragazzo si è ritirato in preghiera. Ho abbracciato il più piccolo, quello che piangeva, gli ho detto: “Welcome in Europe my friend, now you are safe”. Lui era spaesato, dopo due anni in viaggio (l’ho scoperto dopo) nessuno gli aveva mai fatto un gesto simile e lo stava ricevendo nel momento in cui vedeva la luce infondo al tunnel. Finito questo momento iniziamo il soccorso di chi era ancora sul gommone.
Diamo a tutti i giacchetti di salvataggio e iniziamo a fare dei viaggio con 10/12 persone a bordo. Ogni volta che salivano a bordo della Open Arms partiva un urlo di esultanza. Quello è territorio spagnolo, ora sono salvi davvero. Appena i due gommoni sono sistemati arrivano anche gli ultimi soccorritori e tutti insieme andiamo a salutarli “ufficialmente”.
Il capitano batte le mani, ci ringrazia e da lì inizia un’altra scena meravigliosa di questi ragazzi emozionati e noi più di loro. Erano da due giorni in mare senza cibo e senza acqua, il piccolo motore che gli hanno dato non funzionava più. Pensavano di morire a breve e invece hanno visto arrivare due gommoni con un gruppo di ragazzi a bordo che li ha salvati.
Finiamo l’operazione alle 2:30 della notte, Giovanna e Marina hanno già iniziato lo screening medico, alcuni hanno piccole ustioni causate dal gasolio e li fanno spogliare dentro una doccia predisposta ad hoc e li fanno lavare e dopo mangiano delle barrette energetiche che gli reintegrano qualche energia perduta. Andiamo avanti così fino alle 4:30 circa e approfitto per fare delle interviste.
Mi raccontano di torture riprese dai video per inviarli alle famiglie e farsi pagare. “La Libia non è sicura, là uccidono i migranti, li uccidono per soldi. Voglio andare in Europa, là almeno non rischio di morire con in Libia e come in Sud Sudan.” Io devo iniziare a selezionare il materiale foto e video e mandarlo. Non faccio in tempo a inviare tutto che sorge di nuovo il sole, approfitto della bella luce per qualche foto mentre i ragazzi si svegliano e iniziano a lavarsi e a pregare.
Tutti continuano a ringraziarci, appena incrociamo lo sguardo vediamo solo sorrisi e le teste che si chinano a ringraziarci. Fare le foto è davvero difficile così perchè per estrema gentilezza e gratitudine si mettono in posa. Faccio qualche scatto, torno a inviare il materiale.
Sono stanco ma la stanchezza è relativa davanti a chi ha passato gli ultimi mesi in Libia e gli ultimi due giorni in mare senza cibo e acqua. Chiedo scusa se mi scappa qualche dettaglio e se il racconto non è abbastanza approfondito ma devo metabolizzare, ma prima ancora mangiare qualcosa e dormire. “Chi salva una vita salva il mondo intero” e gli occhi di questi ragazzi lo confermano.
Decimo giorno – mercoledì 1 agosto, ore 10.30
Come sempre il giorno dopo è quello delle polemiche. Abbiamo passato la giornata in plancia a ricevere chiamate da parte di giornali, tv e agenzie di stampa. Nicola Fratoianni ha passato la giornata al telefono e io ho fatto un pezzo video e un intervento a Tele Radio Stereo con Nino Santarelli che mi chiedeva una testimonianza.
La parte politica in questo caso non mi compete e non entro nel merito di questa polemica ma voglio riportare i fatti, che poi è il motivo per cui sono qua. Ho letto di “condizioni avverse del mare” per cui la nave “Asso 28” è dovuta entrare in azione e recuperare le 101 persone. Leggo di Tripoli come un “porto sicuro” e di responsabilità della Guardia Costiera italiana.
Io in quelle ore sono stato 5 ore in mare su un gommone di 7 metri perchè ero con il team di soccorritori della Open Arms, i primi che arrivano, quelli che iniziano e finiscono l’operazione in mare. La velocità a cui andavamo era tra i 24 e i 40 nodi. Nel diario di ieri uso il termine “lanciati” perchè effettivamente siamo stati lanciati dalla Open Arms verso il primo punto di soccorso perchè speravamo di arrivare prima dei libici.
Per chi non è esperto di mare queste sono velocità notevoli, soprattutto sopra i 30 inizia a essere molto veloce. Per poter fare un confronto la Open Arms che è un rimorchiatore va a un massimo di 11,5 nodi mentre i pattugliatori di solito vanno a 15 nodi come velocità di crociera e fino a 25 nodi per emergenze.
Se il mare fosse stato in “condizioni avverse” oggi avrei la schiena rotta e soprattutto a 35/40 non ci saremmo mai potuti andare. Il mare era piatto, calmo, tranquillo. Solo nell’avvicinamento al secondo “target” (punto in cui c’è il gommone con le persone a bordo) abbiamo trovato un po’ di onde e abbiamo fatto alcuni salti ma era semplicemente che andavamo al massimo della velocità e avevamo la corrente contraria.
Nel diario di ieri parlo addirittura di quando appena è calata la notte non ho potuto far a meno di guardare le stelle e distrarmi per alcuni istanti. Se il mare fosse stato mosso non sarei riuscito a farlo perchè la posizione che bisogna assumere a bordo del gommone è quella di tenersi più forte possibile con le due mani a un pezzo di ferro e piegare leggermente le ginocchia in modo da non sovraccaricare troppo le stesse e la schiena. Quindi parlare di condizioni avverse è un’assurdità.
Poi c’è un fatto di cui non si sta parlando ma che è molto ambiguo e vorrei scriverne. Poco prima che arrivassimo sul secondo “target” è arrivata una chiamata da parte della Guardia Costiera Libica al ponte della Open Arms. Questa non la posso sentire direttamente tramite la radio che abbiamo a bordo del gommone ma immediatamente dopo ci arriva una nuova comunicazione che dice: “Cambio di rotta, ripeto cambio di rotta. Nuovo target a 33° 44′ N 12° 08′ E”, ho anche un
registrazione video di questo momento.
Il problema è che eravamo a pochissime miglia da un gommone e potevamo fare il soccorso e il recupero ma in quel momento ci dicono di cambiare rotta e dirigerci in un punto molto lontano. L’idea che non fosse vero mi è venuta subito però non si può non rispondere a una chiamata d’emergenza e quindi cambiamo rotta. Il navigatore di bordo ci dice che al massimo della velocità ci avremmo messo un’ora.
Quella barca di legno con i 35 migranti a bordo non è mai stata trovata, nemmeno il “Colibrì”, l’aereo che ci sta aiutando nel pattugliamento, ha trovato nulla la mattina successiva.
Per quanto riguarda le comunicazioni della “Asso 28” e da chi è arrivato l’ordine posso riportare quello che ho sentito io direttamente dalla radio a bordo del gommone. Ad un certo punto dal ponte ci danno ordine di fermarci per un attimo, approfitto per fare una foto e un po’ di video prima di impacchettare di nuovo la reflex dentro la busta che ho messo a protezione degli schizzi.
Durante questa breve sosta sentiamo alla radio una comunicazione del nostro ponte con un’altra barca, la comunicazione è in italiano e quindi Perico, il pilota del gommone mi passa la radio in quel momento sul canale 72 per capire cosa dicono perchè sono l’unico italiano a tra i 4 a bordo.
Quello che ho sentito è:
Riccardo Gatti: “Avete recuperato un gommone?”
Altra barca: “abbiamo recuperato le persone, non il gommone”
R. Gatti: “Si, intendevo le persone a bordo del gommone”
Altra barca “si, li abbiamo a bordo”
R.Gatti: “Chi vi ha dato l’ordine?”
Altra barca: “L’ordine ci è arrivato dalla piattaforma per la quale lavoriamo”.
Oltre ad essere un reporter sono una persona che ha assistito direttamente a questa conversazione via radio, l’ho sentito con le mie orecchie. Il resto sono comunicati, interpretazioni, tentativi di svicolare.
Sul “porto sicuro” potrei dire un sacco di cose ma faccio prima a citare Fulvio Vassallo, un esperto nel settore. Nel suo pezzo di ieri a proposito della “Asso 28” e della situazione della “Sarost 5” dice che si intende come “safety place” un luogo terzo dove venga garantito il diritto di asilo e che siano garantiti i diritti fondamentali oltre che la sicurezza delle persone stesse.
Addirittura Frontex ieri ha ribadito che la Libia non è considerata un “porto sicuro”.
Parlando con Riccardo Gatti ieri mi ha detto: “Se poi dovessimo parlare della “Zona SAR Libica” dovremmo aprire un capitolo a parte perchè per avere una zona SAR deve esserci uno stato di diritto che la dichiara unilateralmente. A quel punto deve esserci un MRCC (Centro di coordinamento di soccorso marittimo) in grado d’intervenire in caso d’incendio di una nave commerciale (quindi avere gli aerei canadair) e soprattutto saper far fronte in caso di disastro ambientale in mare”.
Al tramonto approfitto per fare alcune foto e vedo Carlinho, il nostro “Tom Bombadil”, che scrive alla moglie dalla prua della barca. La luce del suo telefono e quella del tramonto insieme sono qualcosa di unico.
La giornata passa tre le polemiche che arrivano dall’Italia ma io nel frattempo inizio a metabolizzare quello che abbiamo fatto ieri. Tante ore in mare con i libici in zona e tanti gommoni da salvare.
L’ultima ora passata completamente al buio sotto un cielo dove si vedeva perfettamente la via lattea e ogni singola stella.
Abbiamo navigato in un “buco nero” al centro del Mediterraneo per oltre un’ora. Per poter vedere qualcosa abbiamo dovuto ridurre al minimo ogni singola fonte di luce del radar di bordo e far abituare i nostri occhi a quella oscurità. In un’altra situazione penso che il panico avrebbe preso il sopravvento ma in quella condizione ogni sforzo era finalizzato a cercare i
gommoni alla deriva.
Stasera vedo le stesse stelle dal centro della Open Arms, forse solo un po’ meno per via delle luci della barca. La via lattea è comunque molto visibile ed è impressionante, uno spettacolo unico.
La giornata finisce con una piccola “torta” per Marina, l’infermiera di bordo, che oggi compie gli anni. Nutella e biscotti, quello che abbiamo a bordo. Almeno l’umore torna alto e ci prendiamo un bel momento collettivo per distrarci. Domani si ricomincia, vedremo che succederà.
Ci hanno battuto sulla velocità.
I libici o chi per loro hanno preso i barconi che sono partiti ieri notte. Al momento 101 persone tra cui 5 donne incinte e 5 bambini stanno rientrando a Tripoli a bordo di un mercantile italiano.
Gli altri gommoni che ci sono stati segnalati in mattinata sono stati recuperati dalla guardia costiera libica.
La mattina era iniziata a largo del Tunisia dove la petroliera Sarost 5 è ancorata a 5 miglia dal porto ormai da più di 20 giorni senza avere le autorizzazioni per attraccare. A bordo ci sono circa 40 persone tra cui 2 donne incinte. Arriviamo la mattina alle 5, dopo alcune ore ci danno l’autorizzazione per entrare in acque tunisine e contestualmente ci danno le coordinate per mettere l’ancora.
La richiesta è quella di portare assistenza medica e soprattutto fare l’ecografia alle due donne. Appena finita questa operazione ci chiamano le stesse autorità di prima dicendoci che non avevamo le autorizzazioni per entrare in acque tunisine. Ovviamente dalla plancia gli danno i riferimenti della chiamata in cui si diceva il contrario ma intanto ci mandano un pattugliatore che ci “accompagna” ben oltre le 12 miglia tunisine.
In pochi istanti però la situazione cambia completamente. Dal “colibrì”, l’aereo di una ONG francese, ci comunicano che ci sono alcuni gommoni a largo di Sabratah. Qua inizia un gran caos comunicativo in cui dalla plancia della Open Arms cercano di districarsi.
La procedura dovrebbe essere questa: Colibrì informa il centro di coordinamento per le emergenze marittime di Roma e questo dovrebbe lanciare un “MAYDAY” a tutte le navi in zona. Succede invece che Roma informa gli omologhi di Malta e si suppone anche la guardia costiera libica, i primi rilanciano il MAYDAY mentre i secondi non danno informazioni a riguardo.
Iniziano una serie di chiamate in cui a Roma dicono: “Ci sono già i libici sul posto” mentre da Tripoli non risponde nessuno e quando rispondono non parlano inglese. La situazione diventa surreale e se non ci fossero alcune centinaia di persone in mare sarebbe quasi comica.
La Open Arms deve fare tutto da sola perché di fatto non esiste più un coordinamento per queste situazioni. Le informazioni che abbiamo sono della mattina e noi non potremo essere sul posto prima delle 18, quindi dobbiamo muoverci facendo previsioni di movimento che ovviamente possono non essere corrette perché non tengono conto degli imprevisti e di eventuali cambi di rotta. Inoltre il primo dei gommoni che è stato avvistato stava navigando in circolo, come se avesse problemi al timone.
La nostra barca viaggia a 11.5 nodi, troppo poco rispetto ai pattugliatori, quindi decidono di“lanciare” le due squadre di soccorso a bordo dei RIBH, i gommoni. L’aria è tesa, il capitano e il
capo missione sono categorici: “Andate veloce ma una volta arrivati vicino a target rallentate e controllate. Se ci sono i libici andate via, siamo soccorritori non altro. Non dobbiamo mai perdere il
contatto radio, per nessun motivo.”
In totale siamo in 7, tesi e concentrati. Alle 5:40 inizia la nostra corsa disperata contro il tempo per arrivare prima e scongiurare che le persone vengano riportate in Libia. A bordo della lancia ginocchia e schiena vengono messe a dura prova. Dopo poco meno di un’ora arriviamo sul “target” ma non c’è nulla. Vediamo mare, solo ed esclusivamente mare. I libici sono arrivati prima di noi.
Non resta altro che continuare a massima velocità verso nord e tenere gli occhi aperti perchè proprio in quella direzione c’era un altro gommone con molte persone a bordo.
Il viaggio è lungo, almeno un’ora andando a 28/30 nodi di velocità. Fisicamente è stancante per tutti ma per me è ancora più difficile con le due camere al collo che ballano. Il sole inizia a scendere alla nostra sinistra, se fosse una gita in mare sarebbe perfetta ma così non è e dobbiamo mantenere una velocità alta e soprattutto controllare se avvistiamo qualcosa, sia che siano libici sia che siano migranti.
Quando siamo quasi arrivati sul “target” arriva una chiamata: la guardia costiera libica ci dice di cambiare rotta perché c’è una barca di legno con 35 persone a bordo.
Dalla plancia arriva la conferma della comunicazione. Ovviamente sembra strano che questa notizia arrivi proprio da chi per tutto il giorno non ci ha dato notizie dicendo solo: “tranquilli, ci pensiamo noi” e che pochi giorni fa ha definito la Open Arms una “organizzazione illegale”, però in questi casi non si può non andare quindi con le RIBH cambiamo totalmente rotta e puntiamo a nord ovest mentre fino a poco prima andavamo verso nord sapendo che forse i gommoni erano leggermente più a est.
Nel frattempo il sole è tramontato e ad accompagnarci resta solo il rosso all’orizzonte e le luci delle piattaforme libiche in mezzo alle quali ci troviamo. Per un attimo perdiamo il contatto radio con la plancia, andavamo troppo veloci e la Open Arms è rimasta indietro. Ci fermiamo, aspettiamo. Il crepuscolo non è mai stato così rosso di rabbia e frustrazione. Girare per il Mediterraneo centrale con un gommone per soccorrere le persone e ritrovarsi a vagare senza il sopporto di nessuno. Siamo stanchi, giriamo da più di 3 ore senza sosta e approfittiamo della breve sosta per bere un po’ di acqua. Ripristinato il contatto radio e con le stelle e la luna a illuminarci il mare riprendiamo la nostra rotta e attorno a noi compaiono molte luci di navi mercantili ma di piccole barche neanche l’ombra. Andiamo avanti così per un’ora abbondante e oltre a cercare le luci in quella marea nera non posso fare a meno di guardare le stelle che ci accompagnano.
Ad essere onesto ne conosco poche però lo spettacolo è incredibile. Una quantità di stelle più o meno luminose che riempiono il cielo e gli donano qualcosa di poetico.
Nel frattempo arriva la notizia che la “Asso 28”, una nave italiana che fa assistenza alle piattaforme libiche, ha recuperato 101 persone tra cui 5 bambini e 5 donne in gravidanza. Le coordinate che ci
danno sono molto, troppo vicine a quelle a cui eravamo diretti prima dell’ultimo cambio di rotta. La Asso 28 li riporterà in Libia dove torneranno a subire le condizioni inumane dei centri per migranti. La rabbia aumenta ma non può essere il sentimento che determina queste operazioni, anche perché se dovessimo incontrare davvero questo piccolo peschereccio con 35 persone dovremmo comunque prestare soccorso, restare tranquilli e soprattutto trasmettere tranquillità.
“Eccola! Vedo una luce piccola verso prua” urlo agli altri membri dell’equipaggio. La luce è intermittente ma nel giro di poco la vedono anche loro. Puntiamo al massimo della velocità in
quella direzione e in pochi minuti siamo là ed effettivamente la barca c’è, ma non sono i 35 migranti che ci ha comunicato la guardia costiera libica ma dei pescatori che stavano pescando.
Le tensione scema, la Open Arms nel frattempo ha preso una rotta più corta ed è a poche centinaia di metri da noi. Sono passate da un po’ le 22, torniamo a bordo per una cena calda e un briefing veloce. È stata dura sia fisicamente che psicologicamente ma abbiamo fatto il possibile.
Quello che resta sono circa 500 persone che sono state riportate in Libia con il benestare dell’Italia e della Comunità Europea. Una volta a bordo apprendo da Nicola Fratoianni che il presidente della
Camera dei Deputati Roberto Fico proprio oggi ha dichiarato che non possiamo considerare la Libia come un porto sicuro. Credo che queste 500 persone lo sapessero già e che basta leggere e guardare i reportage che hanno fatto dei colleghi nei mesi passati per capire che tortura e disumanità siano le condizioni “normali” in quel Paese.
Alle 23 sono già a letto che alle 5:45 ho di nuovo la sveglia per la guardia che domani potrebbe essere un altro giorno difficile.
Andiamo via da Malta e ci dirigiamo di nuovo verso sud.
Prima e dopo l’evacuazione dei due membri dell’equipaggio approfittiamo della rete maltese per comunicare un po’ con il mondo esterno e vedo che via Twitter il ministro dell’Interno italiano esulta perchè la Open Arms se ne va a mani vuote dalla zona SAR. Gli sguardi a bordo sono abbastanza basiti ma abbiamo molte cose da fare e la giornata va avanti.
In realtà sono ancora più allucinato da un commento su Instagram di una donna che leggendo il diario ha commentato una foto sul profilo Proactiva Open Arms asserendo che questa missione sembra una vacanza e che stiamo cazzeggiando. Ha scritto proprio così: “cazzeggio”. Si lamentava che parlassi della cucina, degli umori a bordo come se in una nave che fa soccorso umanitario la vita fosse sospesa. Come se l’equipaggio di 19 persone non dovesse vivere, mangiare, respirare. Non ho risposto e non intendo farlo perché mi piacciono le discussioni costruttive e se la base di partenza è una manciata di odio lanciata sui social non trovo niente di costruttivo, soprattutto perché ho pochissima connessione dati a disposizione e preferisco comunicare con la mia famiglia e con le redazioni con le quali collaboro.
“Con la defezione di due membri dell’equipaggio dobbiamo riorganizzare le squadre di soccorso” ci dice Riccardo Gatti, il capo missione. L’occasione diventa un momento per ripassare e affinare meglio le pratiche d’intervento. Vediamo video e foto di altre missioni, ragioniamo sulle diverse possibilità che potremmo incontrare e come gestirle. La cosa più importante e ricorrente è “restare calmi” in qualsiasi situazione per poter trasmettere calma e sicurezza alle persone che incontreremo. Per fortuna siamo tutti professionisti ma questa situazione è comunque particolare. I due vigili del fuoco valenciani hanno già lavorato in acqua, per me e il collega Juan non è la prima volta e per gli altri 4 soccorritori idem. Possiamo sommare un bel numero di brevetti e esperienze ma tutto questo non elimina le possibilità di complicazione. Il problema infatti durante un recupero è se i migranti si agitano e la barca è sovraccarica. A quel punto le possibilità di rovesciarsi sono alte e avere uomini in mare, soprattutto di notte, è la peggior condizione per un soccorso.
La sera scorre tranquilla in placia con l’ennesimo tramonto mozzafiato e la luna rossa che spunta quando ancora il cielo arancio ci accompagna. Il mare è calmissimo ed è molto strano che non stia partendo nessuno dalle coste libiche. In 5 giorni di navigazione in zona SAR e dintorni abbiamo trovato solo un giorno di mare mosso mentre il resto del tempo è stato praticamente piatto o leggero verso nord.
“I barconi li dovete cercare più a nord, sulla rotta per Lampedusa e Malta” ci dice il capitano di un peschereccio tunisino che incontriamo sulla rotta. Ci avviciniamo e parliamo un po’, ci dicono che spesso li incontrano in quella zona e quando gli raccontiamo i nostri ultimi giorni anche a loro sembra strana questa cosa. “Il mare è perfetto, è davvero strano” ci dicono mentre ci regalano un po’ di pesce fresco.
Da questa mattina è operativo l’aereo di ricognizione sulla zona SAR, questo dovrebbe migliorare la situazione. Noi continuiamo ad essere pronti.
Carlos è marinaio tuttofare della nave. Qualsiasi cosa ci possa servire Carlinho (come lo chiamano tutti) è la persona giusta. Alto poco più di un metro e mezzo, pelle arrostita dal sole e faccia sempre sorridente, può essere definito il “Tom Bombadil della Open Arms”.
La mattina alle 5:50 lo incontro sempre al bagno e poco dopo in cucina per la colazione. Lui panino con prosciutto e formaggio, io un più classico tazzone di latte con un po’ di caffè e tanti cereali.
Appena faccio la prima domanda per conoscerlo meglio è come scoprire un vaso ricco di storie. Carlinho ha 55 anni e da meno di 10 lavora in mare e da quando è salpata la Open Arms lui è a bordo.
Nella vita precedente aveva una ditta edile nella sua cittadina d’origine in Galizia e costruiva case. Appena mi dice questo prende il telefono e mi fa vedere le foto delle case, di lui al lavoro con i fratelli e gli operai, delle rifiniture interne delle case. Carlinho ne va fiero e fa bene, sono belle e rifinite e fatte tutte con pietre locali che vengono tagliate in modo particolare. Proprio in questo punto inizia a raccontare le diverse tecniche per tagliare e “posare” le pietre una sopra l’altra. Detto così sembra tutto facile ma c’è una conoscenza artigiana incredibile.
L’azienda è stata fondata da suo padre e i figli l’hanno ereditata con buoni risultati fino a qualche anno fa, quando con la crisi e la richiesta di costruzione di case è diminuita e non sono riusciti a sostenere le spese di tasse e stipendi.
“Avevamo 14 dipendenti, nessuno ha mai avuto lo stipendio in ritardo. Ma quando non abbiamo più guadagnato abbiamo chiuso l’attività liquidando tutti i creditori. Io dopo aver fatto il militare avevo lavorato in mare e ho deciso di imbarcarmi di nuovo.”
Carlinho mangia solo carne ed in particolare costolette di maiale. Non vuole mangiare quasi nient’altro, anche se per il polpettone di ieri di Nicola ha fatto uno strappo alla regola, facendo anche i complimenti finali.
Finita questa lunga colazione iniziamo la giornata con la barca che si dirige verso il confine Libia/Tunisia, un posto molto “caldo per le partenze” e non solo. Il tasso di umidità è incredibile e ogni volta che porto la camera fuori dalla cabina si appanna l’obiettivo della videocamera e devo aspettare 10 minuti prima che torni normale.
Mentre andiamo c’è un problema a bordo: un membro del nostro equipaggio sta male ed è richiesta l’evacuazione per aver accesso a cure più specifiche.
Dalle acque tunisine ci muoviamo verso nord, direzione Malta per poter dare un’assistenza più completa. Lampedusa infatti non ha un pronto soccorso molto attrezzato e in caso di peggioramento se fosse necessario un piccolo intervento a Malta possono farlo. La Open Arms comunque non entrerà in acque maltesi, ma verrà un pattugliatore a 15 miglia dalla costa.
Il caso di Sea Watch è un precedente che nessuno vuole rischiare di replicare, fermare l’unica barca che ancora fa soccorso umanitario sarebbe un problema.
Finita questa operazione torneremo in zona SAR per pattugliare, avremo anche l’appoggio di un aereo di una ONG francese e speriamo che tutto sia più facile. Come ho detto nei giorni passati pattugliare da soli nel Mediterraneo centrale è difficile, potremmo incrociare un barcone da un momento all’altro, ma al tempo stesso potremmo stare anche 15 giorni senza vedere nulla.
Come sempre ci auguriamo di trovare persone vive e in salute.
Sesto giorno – venerdì 27 luglio, ore 13.00
Così è difficile.
Senza coordinamento con l’Italia e Malta e quindi senza altri mezzi al di fuori del radar e dei binocoli è difficile capire dove si trovino i gommoni che sono salpati dalla Libia. Non è che non ci siano, non credo che all’improvviso si sia fermato tutto, è solo che è difficile trovare i gommoni e i barconi alla deriva. Le conseguenze sono facilmente immaginabili perché i piccoli mezzi che spesso utilizzano non sono in grado di attraversare il Mediterraneo centrale e arrivare in Sicilia.
La mattinata comunque inizia con un altra “visita”. Nel solito turno di guardia 6/9 del mattino vediamo prima un puntino fermo nel radar e poco dopo un secondo. Dai binocoli vediamo bene che il primo si tratta di un peschereccio fermo mentre il secondo è un pattugliatore libico abbastanza grande.
Loro sono in acque territoriali, noi un po’ fuori e navighiamo in direzione ovest senza dar peso alla presenza. Dopo mezz’ora però il peschereccio è molto distante mentre il pattugliatore è alla stessa distanza e continua a navigare in parallelo con noi. La cosa continua per un bel po’ fino a quando, passata Tripoli rientra e ci lascia.
Poco dopo però avvistiamo un qualcosa di bianco galleggiare in una chiazza che sembra essere di gasolio.
Ci mettiamo qualche minuto a capire di cosa si tratti e poco dopo si percepisce che è un corpo in avanzato stato di decomposizione.
L’umore dell’equipaggio cala drasticamente, delle due squadre dei soccorritori esce solo la mia con l’aggiunta di Juan, il collega di Reuters, e di Nicola Fratoianni, deputato di LeU ma soprattutto di Giovanna Scarcabarozzi, la dottoressa di bordo.
Una pomata al mentolo sotto le narici e una mascherina per naso e bocca sono essenziali per l’avvicinamento durante il quale iniziamo a distinguere delle parti di corpo piuttosto strane.
“È una pecora” grida qualcuno e per fortunaè vero. Dispiace ovviamente per l’animale ma noi eravamo già pronti al peggio. Un corpo isolato in una pozza di gasolio in mare aperto poteva voler dire, nel migliore dei casi, almeno qualche altro corpo in zona o, nel peggiore, una strage come è stato in altre occasioni.
Con il cuore un po’ più leggero approfittiamo per fare delle prove di soccorso con entrambi gli equipaggi di soccorso in mare, il tutto dura due ore e nel frattempo il caldo sole libico ci brucia per bene tutti quanti.
Quando rientriamo a bordo della Open Arms sono ormai le 14:30 e vediamo Marina, l’infermiera, gesticolare arrabbiata. “La pasta era pronta alle 13! proprio ora dovete fare tutte queste prove?” tra noi italiani scatta una risata pazzesca che elimina gli ultimi pesi che avevamo nel cuore.
Il fatto è che Angeles, la nostra cuoca, non sta bene e quindi da oggi abbiamo deciso che il gruppo italiano si occuperà della cucina. Nicola si è offerto volontario ricoprendo lui il ruolo di “polivalente”. Così per pranzo avevano pensato a un piatto di pasta al pomodoro e un po’ di pomodori freschi e olive. “Quanto siamo italiani” le ho detto citando Stanis della serie tv “Boris”, però effettivamente dopo 2 ore in mare e sotto al sole, un bel piatto di pasta (che nel frattempo aveva rimesso su) è stato un toccasana.
Al momento siamo a 99 ore di navigazione, siamo ancora molto sereni e il mare continua ad essere molto calmo. Potrebbero esserci delle partenze o potrebbero esserci già state ma pattugliando solo un pezzo di costa senza l’ausilio di nessun altro è difficile trovare barche che necessitano di aiuto.
Intanto è arrivata la notizia che ieri la guardia costiera spagnola ha soccorso circa 500 persone nel sud. Qualche giorno fa su Facebook un signore che non conosco commentava diversi miei post con un “copia e incolla” chiedendomi perchè le ONG non salvano le persone in Spagna.
Credo che questo sia il motivo. Nel momento in cui c’è qualcuno che lo fa non c’è bisogno di ausilio, in questa parte del mediterraneo (molto più grande del pezzo tra Spagna e Marocco) al di fuori della guardia costiera libica non c’è nessuno che incrocia queste piccole barche non attrezzate per attraversare il mare.
Quinto giorno – giovedì 26 luglio, ore 12.00
Un delfino!
La giornata inizia benissimo con un salto di un delfino molto grande proprio davanti alla prua.
Sono appena le 6:40 quando lo vedo ma il tempo di prendere la videocamera dietro di me e uscire dalla plancia al ponte ed è già sparito.
Con un po’ di amarezza torno al mio posto ma prendo questo avvistamento come un segnale, magari la giornata fila liscia senza troppi problemi.
Siamo infatti in arrivo in zona SAR, ci siamo lasciati Lampedusa alle spalle verso le 5 del mattino e abbiamo continuato verso la Libia costeggiando la Tunisia.
Lo spettacolo del delfino si ripropone poco dopo: alle 8:20, mentre sono ancora di guardia, vedo saltare di nuovo un delfino. Questa volta corro verso prua e sono fortunato perché non ha intenzione di andarsene stavolta.
Inizia a giocare con noi. Passa da destra a sinistra della prua, inizia a saltare e al fischio del comandate (i delfini riconoscono i suoni acuti) torna indietro e continua lo show per altri 20 minuti.
“È impressionante la bellezza e l’eleganza” mi dice Juan mentre io riprendo e lui fa foto ed effettivamente è vero. Ma è vero soprattutto che vederlo giocare così in mare aperto non ha nessun paragone con quando li vediamo nei delfinari.
Nonostante siamo a 60 ore di navigazione con un mare non sempre clemente la mattina scorre tranquilla grazie ai delfini. Alle 12 però prende tutt’altra piega perchè iniziamo ad essere molto vicini alla Libia e soprattutto a due piattaforme petrolifere libiche.
In quel momento siamo 5 persone in avvistamento per vedere se ci sono barconi o gommoni vicino a noi ma la sorpresa è giusto a poche miglia più in là. Dalla zona delle piattaforme punta verso di noi una barca molto piccola e veloce. Prima arriva da ore 2, poi si mette a ore 12 e continua la sua marcia. Il radar non la segnala e la velocità non può essere quella di una barca per migranti. Non essendo però in acqua libiche escludiamo che la guardia costiera di Tripoli si sia spinta fino a lì per noi.
La piccola barca continua il suo avvicinamento e utilizziamo i binocoli ma soprattutto le macchine fotografiche per capire di che imbarcazione si tratti. Ovviamente la tensione sale, non è normale che in mare una nave non identificata e che non appare sul radar ti punti a forte velocità. Quando si trova a circa un miglio da noi vira a tribordo e ci costeggia a qualche centinaio di metri senza fermarsi, senza dire nulla. Piano piano la vediamo allontanarsi per poi vederla apparire di nuovo e virare verso le piattaforme, per poi sparire definitivamente.
L’umore torna tranquillo anche se ovviamente si alza un po’ la guardia.
La giornata poi scorre abbastanza lentamente in plancia, tra l’avvistamento di alcuni pescherecci e di nuovo i delfini che ci accompagnano in questo lungo viaggio.
Nicola Fratoianni si era proposto di cucinare una parmigiana e ovviamente gli italiani hanno apprezzato subito. Io avrei fatto volentieri da assistente. Purtroppo le melanzane nel congelatore non sono buone ed è saltato il programma a favore di una cena molto più leggera e classica.
Forse è quasi una fortuna perchè non faccio in tempo a mangiare che avvistiamo nel radar una barchetta che va in direzione nord e si trova a 8 miglia da noi. Ci identifichiamo e chiediamo chi sono e se hanno bisogno di un aiuto. Non rispondono. Aumentiamo la velocità al massimo per raggiungerli e capire meglio. Loro navigano a 5 nodi, noi 11.5 e dopo quasi un’ora siamo vicini. Continuano a non rispondere alla radio. La luce è troppo forte per essere un gommone di migranti ma velocità e soprattutto la direzione è quella.
“Potrebbero essere contrabbandieri e trasportare varie merci” dice un volontario mentre con binocoli e macchine fotografiche proviamo a capire meglio chi siano.
La barca balla molto, un po’ è il mare e un po’ è la velocità massima che teniamo a far ballare tutto tanto da rendere difficile star in equilibrio. Guillelmo, uno dei pompieri che soffre molto il mare torna sul ponte a poppa e cerca di non sentirsi male per essere pronto a un eventuale soccorso.
Alla fine la piccola barca cambia di poco rotta, ci fa sfilare alla sua destra e vediamo che ci sono poche persone a bordo e quello che da lontano potevano sembrare persone sono reti e barili molto colorati.
È stato un falso allarme che però ha fatto scattare tutte le procedure e siamo stati pronti.
Ora la nave si dirigerà verso est dove di solito ci sono più partenze. Siamo a 78 ore di navigazione, il mare è calmo e il meteo ottimo per navigare. A questo punto non solo per noi.
Da oggi si cambia atteggiamento in nave.
Da un momento all’altro potremmo incontrare un barcone o ricevere una chiamata di soccorso. Quindi i turni in plancia devono essere ferrei e soprattutto dobbiamo essere operativi in pochi minuti. Non che prima fossimo nulla facenti, anzi, però ora abbiamo bisogno di più concentrazione.
Al mio turno di guardia delle 6 siamo già a largo delle coste tunisine. Nella cartina nel computer in plancia vedo la Sardegna molto a nord, mentre le coste africane risultano essere molto vicine a noi.
Riccardo, il primo ufficiale argentino, mi spiega che massimo per le 18 saremo davanti a Tunisi e da li potremo virare la rotta verso sud.
“Ogni chiamata può essere una chiamata d’aiuto per noi”, dice Riccardo Gatti, il capo missione in un briefing che abbiamo fatto ieri sera. Ci dice anche che c’è una nave tunisina a largo da alcuni giorni ma che non hanno chiesto aiuto né ci sono stati contatti.
“Se dovessero contattarci siamo pronti ad intervenire”. In un paio di occasioni in plancia ci mettiamo in ascolto molto attentamente.
Discussioni in arabo, francese, inglese, italiano. Sentiamo che c’è un uomo in mare a largo di Mazara del Vallo, ascoltiamo una nave francese con un piccolo equipaggio a bordo che parla con le autorità tunisine.
Effettivamente ogni comunicazione potrebbe essere un indizio su qualcosa che sta accadendo o soprattutto potrebbe essere una richiesta d’aiuto.
Io e Juan iniziamo gli ultimi preparativi per le foto e videocamere. Batterie cariche e schede vuote, non sappiamo quanto possa durare l’operazione di recupero e soccorso. Può darsi che siano poche persone, può darsi che siano tante. Può darsi che la situazione si complichi per qualche problema tecnico. Quindi l’attrezzatura fotografica e video deve essere pronta.
Nel pomeriggio abbiamo fatto anche le esercitazioni antincendio e quelle per l’evacuazione della nave. Ovviamente i due pompieri valenciani ci danno una grossa mano: spiegano nel dettaglio cosa fare in caso di incendio, dove intervenire e come evacuare in ultima istanza. Per fortuna che il gruppo è sereno e affiatato, così che anche questa esercitazione (più noiosa delle altre) riesce a passare velocemente.
“Però non ho capito perché l’Arabia Saudita è contro l’Iran e soprattutto cosa c’entrano con la Siria”, mi chiede un marinaio. Allora abbiamo organizzato una “lezione extra” su come l’islam è suddiviso: Sciiti, Sunniti, Alawiti etc. È una sorta di tv collettiva e interattiva che facciamo per passare la serata accompagnandola con un po’ di risate e riflessioni collettive.
Marc, il capitano, segna sulle cartine che abbiamo stampato quali stati erano protettorato/colonia inglese, quali erano francesi, italiani, belgi e così via fino ad avere una cartina impressionate dove ogni stato africano o mediorientale ha un colore o dei disegni differenti e ognuno di questi corrisponde alla depredazione degli stati europei che hanno lasciato il vuoto dietro di loro.
In questo momento passiamo nel canale di Pantelleria. Per alcuni minuti ho avuto la linea TIM e ho approfittato per chiamare mia moglie Valentina e i miei genitori.
Con un po’ di difficoltà siamo riusciti a parlare per qualche minuto e ci siamo salutati. Ovviamente la comunicazione a bordo, salvo emergenze, è limitata ad internet ed avendo 1gb fino al 1 agosto posso comunicare solamente via mail, riducendo il peso di ogni singolo file e postando solo il diario del giorno su Facebook.
Tutti gli altri mi serviranno per inviare il materiale alla Associated Press non appena l’eventuale recupero sarà completato.
Iniziamo a fare sul serio.
Dopo la lezione sulle malattie che potremmo incontrare durante il soccorso, oggi abbiamo fatto una lezione pratica di primo soccorso.
L’azione di recupero sarà effettuata da due unità, ognuna delle quali è composta da un gommone a 4 persone: il pilota, due soccorritori e un fotografo/filmmaker.
Io sono in gruppo con Perico, Pepe e Panama. Nell’altra ci sono Juan, il collega di Reuters, Guillermo, Esther e Albert.
Pepe e Guillermo sono pompieri di Valencia ai quali il comune ha dato una licenza speciale per poter essere a bordo. Dopo di loro ce ne saranno altri, questo è il modo in cui i valenciani hanno deciso di supportare Open Arms e aiutare i migranti.
Loro, insieme alla dottoressa Giovanna, ci mostrano quali possono essere le situazioni critiche che potremmo incontrare e come dovremo agire.
Marina si presta a fare la “ferita” e noi la mettiamo in sicurezza su una barella, fingendo fratture di gambe o braccia. Poi è la volta dei problemi alle vie respiratorie. Ci spiegano come dobbiamo intervenire se ci sono corpi estranei in gola o più in fondo.
Una volta portati a bordo della Open Arms, saranno pronti una serie di macchinari che agevoleranno le operazioni ma all’inizio saranno tutte procedure di primo soccorso fatte in emergenza.
È a quel punto che automaticamente io da fotografo/filmmaker mi trasformerò nel terzo soccorritore della mia unità.
Chiudiamo con il massaggio cardiaco manuale e l’utilizzo del defibrillatore.
Giovanna ci spiega la procedura per gli eventuali morti, quali strumenti verranno usati e come. Di questo, nel caso in cui ce ne fosse bisogno, se ne occuperà lei.
Fino a quel momento la lezione era andata bene, ma una volta terminata c’è stato un attimo in cui i nostri sguardi si sono incrociati e senza parlare, i nostri occhi hanno chiesto: “ma davvero succederà? davvero troveremo qualcuno con una gamba fratturata? Davvero troveremo qualcuno con le vie respiratorie ostruite? Davvero dovremo praticare un massaggio cardiaco? Ma soprattutto: davvero dovremo recuperare dei corpi dal mare?”.
Quello è stato il momento in cui ho realizzato cosa stiamo facendo, quanto sarà difficile ma soprattutto quanto è necessario. Siamo pronti, almeno per il momento.
In quegli instanti non dovremo fare domande ma essere operativi e veloci, il più possibile, perchè dobbiamo salvare il maggior numero di persone, ma soprattutto dobbiamo evitare che arrivino i libici prima della fine del trasbordo, per evitare problemi.
Con questo macigno nello stomaco la giornata è continuata con il suo dolce “ondulare” sull’onda lunga che da ieri non ci lascia.
La sera è stato il turno di una piccolo scambio culturale: io ho parlato di Siria e Palestina, del perchè le persone vanno via e su come riconoscere dai dettagli se sono di un Paese o di un altro.
Giovanna è esperta di Africa sub sahariana e ha parlato di tutta quell’area geografica, Juan ha parlato del Ciad e del Mali mentre Marina ha raccontato del Bangladesh.
Sono stati gli altri membri dell’equipaggio a chiedere a chi fosse un po’ più esperto di condividere informazioni, così da potersi relazionare meglio con chi incontreremo.
Scorriamo foto di soccorsi passati, mentre io utilizzo le foto del libro (R)Esistenze visto che sono le uniche che ho dietro: gli Hard Disk portatili li ho lasciati a casa, ne ho portati solamente due per fare un backup.
Domani faremo altre prove di primo soccorso, vogliamo arrivare pronti alle diverse situazioni che potremo incontrare, per lavorare al meglio e con tranquillità.
Secondo giorno – lunedì 23 luglio 2018, ore 17:40
Abbiamo preso l’onda lunga e l’abbiamo presa di taglio. La barca oscilla da sinistra a destra e viceversa con una costanza da far invia a un maratoneta esperto.
Per la notte questa costante oscillazione è piacevole perchè è come se fossimo in una mega culla e Nettuno ci dondolasse con una mano gigante. Ma al risveglio tutto è un po’ più difficile e soprattutto iniziamo a fare sul serio, ci prepariamo per la missione per la quale siamo saliti a bordo. ong open arms
Sveglia pochi minuti prima delle 6. Io, il mio compagno di stanza Juan, un fotografo argentino di Reuters che vive a Madrid, e Nicola Fratoianni, deputato di LeU, montiamo la guardia in plancia insieme a Riccardo, il primo Ufficiale argentino che da più di 10 anni lavora in mare.
La situazione è molto tranquilla, siamo a largo di Mallorca e tra 20 ore saremo a largo della Sardegna e da lì punteremo a sud passando vicino la Tunisia e puntando verso la Libia.
Con il sorgere del sole approfittiamo per fare qualche foto e una chiacchierata per allontanare la noia. Si parla di politica, del clima delle città in cui viviamo, di storie vicine e lontane che abbiamo visto e vissuto. Parliamo anche del comunicato della Guardia Costiera Libica che accusa Open Arms di essere un’organizzazione illegale ma soprattutto parliamo della situazione che potremmo incontrare una volta arrivati in zona SAR, questa sì difficile da immaginare.
Il problema è proprio questo: ogni volta che la Open Arms è arrivata in zona SAR le situazioni sono state diverse l’una dall’altra e non si può avere idea di cosa, chi e come lo incontreremo.
Questo è emerso anche nel briefing medico che abbiamo fatto ieri con la dottoressa Giovanna Scaccabarozzi. In base alla provenienza, a quanto è stato lungo il viaggio e alle condizioni in cui è stato affrontato ci sono una serie di potenziali malattie che le persone potrebbero avere.
Capiamo che si inizia a fare sul serio quando Giovanna scorre una serie di foto scattate nelle precedenti missioni dove sono visibili gli effetti della scabbia, le ustioni più comuni di natura chimica di solito causate dal gasolio, fino ad arrivare a quelle più rare e pericolose che lei non ha mai incontrato ma che per precauzione dobbiamo conoscere.
Siamo infatti parte integrante dell’equipaggio e ci saranno momenti in cui sarà necessario posare la macchina fotografica e la telecamera per prestare soccorso.
Al briefing per i nuovi arrivati siamo in 4: oltre alle dottoressa ci siamo io, Nicola Fratoianni e Riccardo Gatti. Ad un certo punto si avvicina Perico, il secondo ufficiale, e dice scherzando: “Questa è la nave spagnola con la più alta percentuale di italiani a bordo!”.
Effettivamente siamo 5 italiani. Io, il capomissione Riccardo Gatti, Giovanna Scaccabarozzi Scaccabarozzi, l’infermiera Marina Buzzetti e Nicola Fratoianni, deputato di LeU.
Giovanna e Marina sono incredibili. A parlarci ti senti di aver fatto poco nella vita. La seconda è laureata in Scienze Politiche, parla cinese, ha vissuto 6 mesi a Pechino per perfezionare la lingua ed è esperta di Bangladesh e India. Poi ha deciso di fare l’infermiera e ha lavorato al pronto soccorso di Lecco. “Il pronto soccorso è il posto migliore per formarsi” mi racconta mentre mangiamo qualcosa. Marina è stata imbarcata per 6 mesi su di un’altra nave umanitaria dove ha conosciuto Giovanna e da allora sono diventate amiche e compagne di avventure.
Giovanna invece ha lavorato in Angola per più di un anno, in Sud Sudan, in Pakistan, in Nepal e in tante altre realtà in cui serviva una mano come medico. Durante il briefing ci racconta dei tanti sbarchi a cui ha partecipato, alle diverse malattie diagnosticate e a quanto sia importante essere persone accoglienti prima che professionisti. ong open arms
Insieme a Marina si sono prese cura di Josefa che dormiva proprio nel letto di Giovanna in infermeria. “Quello che la faceva rilassare erano i massaggi ai piedi” mi dicono. Purtroppo hanno avuto l’ingrato compito di attuare la procedura per i corpi senza vita della signora e del bambino. Sacco bianco e ghiaccio per rallentare la decomposizione.
“Il problema è dover arrivare in Spagna e non in Italia, siamo costretti a navigare tantissime ore in più e in questi casi è davvero problematico”. ong open arms
Nicola invece è il segretario di Sinistra Italiana e deputato di LeU. È a bordo perchè con gli altri deputati del suo partito hanno deciso di organizzare una staffetta a bordo di Open Arms per garantire sempre una “copertura” istituzionale. Anche lui come gli altri è parte dell’equipaggio e ha i turni di cucina, pulizia e guardia.
Riccardo non occorre presentarlo. Una delle anime portanti di Open Arms, Comandante della Astral e in questo caso come in altri è il capo missione. Lui coordina tutto quello che c’è da fare. Dai briefing di formazione ai turni fino ai contatti con i media.
Tutti insieme sono l’anima italiana di questa missione. Nonostante la chiusura di porti italiani in qualche modo c’è chi porta in alto la bandiera del soccorso.
Primo giorno – domenica 22 luglio 2018, ore 17:30
Se prima di conoscere il personale di terra e l’equipaggio della Open Arms mi avessero fatto vedere la barca mi sarei messo a ridere e avrei pensato a uno scherzo, viste le modeste dimensioni della barca: 34 metri in tutto la Open Arms, 30 metri la Astral, la seconda nave che viaggia sempre a fianco della sorella.
Invece ho avuto fortuna. Sono atterrato alle 8 del mattino a Maiorca e prima di vedere la nave ho potuto prendere un caffè con l’equipaggio appena sbarcato e parlare di quello che era successo a 180 miglia dalla Libia pochi giorni fa in maniera schietta, “off the records” come si dice in gergo.
Poi in conferenza stampa Oscar Camps, Anabel Montes, Marc Grisol e Erasmo Palazzotto ci hanno spiegato come sono andate le cose e che da pochi minuti avevano denunciato la “cosiddetta guardia costiera libica” per omissione di soccorso e omicidio.
Subito dopo abbiamo pranzato tutti insieme e là ho avuto la possibilità di conoscere tutti gli altri componenti della Ong e quindi capire quanto fosse seria la cosa, quante persone specializzate ci fossero, quanti professionisti si fossero messi a disposizione.
Quindi, al momento della visione di una nave così piccola, invece di ridere ho pensato: “Ma davvero l’Europa ha paura di questa barchetta?” e da lì ho iniziato a pensare che l’entusiasmo che avevo conosciuto in quella lunga giornata, le facce sorridenti nonostante il dramma vissuto, la felicità di aver portato una persona, una sola ma pur sempre importante, era la grandezza di questo gruppo.
Anche la seduta con le psicologhe giunte da Barcellona è stata interessante.
Si è parlato di come stesse l’equipaggio, di come avessero reagito a quello che era successo e a come il corpo di ciascuno somatizzasse questa esperienza. Più che un equipaggio ho visto una famiglia che condivide tutto: gioie e dispiaceri. ong open arms
Ho lavorato in mare ma questo ambiente è diverso. In passato sono stato sulle navi militari, sulle navi commerciali e su quelle che costruiscono gasdotti e piattaforme. Ma un po’ per le dimensioni (quelle partivano da 170 metri in su) e un po’ per la formalità con cui l’equipaggio si muoveva, ho visto come i due mondi fossero diversi. Qui ci si aiuta, tutti devono fare tutto. Volontari, marinai, medici e giornalisti: ognuno fa il suo in base ai turni che sono stati stabiliti, siamo divisi in gruppi di 4 persone con mansioni differenti tra cucina, pulizie, vigilanza e soccorsi.
La Astral è appena partita alla volta di Barcellona perchè un pezzo della nave si è rotto e necessita di qualche giorno di riparazione. Noi salpiamo in giornata per una nuova missione.
La zona SAR è lontanissima da qua, ma con la chiusura dei porti italiani non ci sono alternative. Il morale è alto, ci sono stati avvicendamenti in alcuni ruoli e il momento dei saluti in mare sono ancor più difficili che a terra. Qui si condivide tutto, in 34 metri non ci sono segreti, luoghi appartati. C’è il mare e il suo senso di libertà, in alcuni momenti è l’unica via di fuga che può avere il cervello. Però stavolta è diverso, quel mare calmo spesso diventa il lupo cattivo, il mostro che inghiotte persone che cercano una vita dignitosa. ong open arms
Stavolta speriamo di trovarle vive e poter condividere con loro questi 34 metri.
ong open arm
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