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    L’Internazionale dei Rifugiati alla carica delle Olimpiadi di Parigi 2024

    Per gentile concessione del Comitato Olimpico Internazionale

    Perina è scappata dalla guerra a 7 anni. Saman rischiava l’arresto per delle foto su Instagram. Dorian e Ramiro hanno perso i genitori da adolescenti. Ecco le storie dei 36 atleti “senza patria”, provenienti da 11 Paesi diversi e ammessi ai Giochi di Parigi, dove rappresentano più di 114 milioni di sfollati in tutto il mondo, gareggiano in 12 discipline differenti e, per la prima volta, hanno una bandiera tutta loro

    Di Andrea Lanzetta
    Pubblicato il 26 Lug. 2024 alle 16:01

    Oggi Perina Lokure Nakang è una mezzofondista di fama internazionale ma aveva solo sette anni quando a causa della guerra civile fu costretta ad abbandonare il Sud Sudan per andare a vivere con sua zia in un campo profughi in Kenya. Ramiro Mora Romero, che detiene il record britannico in tre categorie del sollevamento pesi, ne aveva 22 quando lasciò Cuba per il Regno Unito dove, dopo aver perso i genitori, sbarcò il lunario esibendosi in un circo itinerante di Blackpool e vivendo con sole otto sterline a settimana.
    Zakia Khudadadi, disabile dalla nascita e prima donna a praticare il parataekwondo in Afghanistan, aveva la sua stessa età quando riuscì a scappare da Kabul pochi giorni dopo il ritorno a potere dei talebani a causa della fuga delle truppe statunitensi e alleate. Il nuotatore Ibrahim Al Hussein invece ne aveva 25 quando, due anni dopo aver perso il piede destro e l’articolazione del piede sinistro mentre cercava di salvare un amico durante la guerra civile in Siria, sbarcò in Grecia su un gommone insieme ad altre 80 persone.

    Le loro storie, simili e tragiche alle migliaia che riempiono le cronache quotidiane, non devono però suscitare compassione ma piuttosto ispirare. Tutti loro partecipano infatti ai Giochi Olimpici e Paralimpici di Parigi 2024 e non per le nazioni d’origine, bensì per la squadra dei rifugiati che conta 36 atleti – più 8 paralimpici – provenienti da 11 Paesi, ospitati da 15 Comitati nazionali, in gara in 12 diverse discipline e in rappresentanza delle oltre 114 milioni di persone costrette in tutto il mondo ad abbandonare le proprie case e famiglie a causa di conflitti, disastri naturali e persecuzioni politiche, religiose, etniche e di genere.

    La terza è quella buona?
    È la terza volta che gli Atleti Olimpici Rifugiati vengono ammessi ai Giochi, mai così numerosi, ma a differenza delle edizioni passate hanno finalmente la loro bandiera. I primi a sfilare alla cerimonia di apertura sono i 36 atleti (23 uomini e 13 donne) ammessi alle Olimpiadi mentre bisognerà aspettare il prossimo mese per vedere di nuovo a Parigi la bandiera con il cuore rosso circondato da ventiquattro frecce ai Giochi Paralimpici.
    Ma se il simbolo è una novità, non lo è la squadra che fece il suo debutto già alle Olimpiadi 2016 di Rio de Janeiro, a cui parteciparono dieci atleti provenienti da Etiopia, Sud Sudan, Siria e Repubblica Democratica del Congo. Cinque anni dopo, a Tokyo, il team contava già 29 membri mentre nella Ville Lumière ce ne sono sette in più, provenienti da Afghanistan, Camerun, Repubblica Democratica del Congo, Cuba, Eritrea, Etiopia, Iran, Sud Sudan, Sudan, Siria e Venezuela.
    Malgrado il miglioramento in termini di piazzamenti registrato tra i Giochi tenuti in Brasile e quelli organizzati in Giappone, la squadra è ancora alla ricerca della sua prima medaglia. Tre anni fa, l’iraniana Kimia Alizadeh (che quest’anno non fa parte del team) ci andò vicinissima, mancando di poco il bronzo nella categoria pesi leggeri del taekwondo femminile.

    Ma questo non vuol dire che non abbiano i loro campioni. Nella delegazione dei 36 atleti rifugiati figura infatti anche Fernando Jorge, vincitore della medaglia d’oro a Tokyo nella gara di canoa velocità C2 1000 metri, che ha lasciato Cuba nel 2022 e che oggi vive e si allena in Florida, negli Stati Uniti.
    Nel team c’è anche un’altra promettente canoista, l’iraniana Saman Soltani, che vinse l’argento ai Campionati asiatici U23 del 2018. Quel successo le valse un discreto seguito e un invito a un evento a Barcellona nell’agosto 2022, a cui non solo partecipò ma che immortalò anche con una serie di foto pubblicate su Instagram. Bastò questo alla polizia e ai Guardiani della moralità per cominciare a interessarsi a lei. Alla fine fu avvisata dai suoi genitori solo all’ultimo momento – quand’era già in aeroporto per tornare a Teheran – che avrebbe rischiato l’arresto. Da allora vive e si allena in Austria, dove ha chiesto asilo dopo essere stata aiutata da un amico, Uwe Schlokat, incontrato cinque anni prima durante un viaggio in Iran, l’unica persona che allora conosceva in Europa.
    La squadra però può contare anche sull’esperienza: il velocista Dorian Keletela, costretto a fuggire a 17 anni dal Congo dopo aver perso entrambi i genitori; la tiratrice Luna Solomon, rifugiata eritrea allenata in Svizzera dal tre volte vincitore della medaglia d’oro con le Fiamme Gialle a Londra e Rio Niccolò Campriani; il canoista Saeid Fazloula, anche lui scappato dall’Iran, e la judoka Muna Dahouk, fuggita dalla guerra in Siria nel 2019, sono tutti alla seconda partecipazione olimpica consecutiva.

    Stesso discorso vale per i “colleghi” della delegazione paralimpica, dove il veterano Ibrahim Al Hussein è ai suoi terzi Giochi dopo Rio e Tokyo, mentre la già citata Zakia Khudadadi, lo sprinter ipovedente Guillaume Junior Atangana e il lanciatore del peso Salman Abbariki sono alla loro seconda presenza.
    Anche loro hanno i propri campioni: Abbariki ad esempio ha conquistato l’oro e battuto il record asiatico agli Asian Para Games del 2010; Khudadadi ha vinto il campionato femminile di taekwondo agli European Para Championship 2023 nella categoria dei pesi mosca; Hadi Darvish ha ottenuto a giugno il bronzo nel sollevamento pesi alla Coppa del Mondo paralimpica di Tbilisi nella categoria fino a 80 chili; il campione di ping pong Sayed Amir Hossein Pour si è aggiudicato due medaglie d’oro agli Asian Youth Para Games 2021 in Bahrein, mentre a maggio Amelio Castro Grueso ha portato a casa il bronzo nella categoria B di spada maschile ai Campionati delle Americhe di scherma in carrozzina 2024. In quest’ultimo caso (e non è il solo) c’è anche un po’ lo zampino del nostro Paese.

    Ma c’è anche un po’ di Italia
    Da un paio d’anni Amelio si allena infatti a Roma, nel Centro sportivo delle Fiamme Oro-Polizia di Stato a Tor di Quinto. Viene da un contesto difficile in Colombia, dove vivono i suoi sei fratelli e dove sua madre è stata uccisa. Rimasto gravemente paralizzato e ricoverato per quattro anni in ospedale dopo aver perso l’uso delle gambe in un incidente stradale appena ventenne, abbandonato dalla famiglia, il giovane ha cominciato a cimentarsi nella scherma paralimpica soltanto nel 2017. Cinque anni dopo è arrivato a Roma con un visto di soli tre mesi e pochi soldi. Aiutato dalla comunità colombiana e dalla Caritas, oggi vive a Centocelle e grazie ai suoi successi è stato ammesso alla selezione paralimpica dei rifugiati che gareggerà a Parigi dal 28 agosto all’8 settembre prossimi. Ma non è l’unico a vivere e allenarsi nel nostro Paese.

    Anche gli iraniani Iman Mahdavi e Hadi Tiranvalipour sono rifugiati in Italia e sono stati selezionati per la relativa squadra olimpica in gara a Parigi 2024. Il primo è nato sulle rive del Mar Caspio, nella cosiddetta “regione dei lottatori”. Anche il padre di Iman infatti praticava la lotta libera, tanto da trasmettere al figlio la propria passione. Un’eredità importante visto che Mahdavi ha vinto tre medaglie d’oro e quattro d’argento ai campionati locali in Iran, dove vivono ancora sua madre e i suoi fratelli, che non vede da quattro anni. Il lottatore è dovuto fuggire dal proprio Paese nel 2020, arrivando in aereo in Italia solo, senza famiglia né amici e senza conoscere nessuno. Oggi vive nell’hinterland milanese e dopo aver ottenuto lo status di rifugiato ha cominciato a vincere alcune competizioni locali e a partecipare a vari tornei in Europa, entrando così tra gli Atleti Olimpici Rifugiati.

    Anche Hadi Tiranvalipour è nato in Iran, vicino alla regione di Karaj. Entrato nella nazionale iraniana di taekwondo, di cui ha fatto parte per otto anni vincendo varie competizioni nazionali e internazionali, ha dovuto lasciare il suo Paese nel 2022, quando si è rifugiato in Italia. All’inizio del dello scorso anno è stato accolto dalla Federazione Italiana Taekwondo (Fita), che gli ha permesso di allenarsi insieme agli azzurri presso il Centro di Preparazione Olimpica di Roma.
    Un’accoglienza, aiutata dall’immediata concessione dello status di rifugiato politico riconosciuto dal governo anche grazie all’interessamento del presidente della Fita, Angelo Cito, e del ministro per lo Sport, Andrea Abodi, che gli ha consentito di essere selezionato per la squadra olimpica in gara a Parigi 2024, dove Hadi intende «rappresentare tutti coloro che hanno affrontato grandi sfide per perseguire i propri sogni» e per «ispirare altri a credere che nulla sia impossibile». Uno dei tanti esempi di questo team che, in pieno spirito olimpico, va ben oltre lo sport.

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