Non si incontravano da quasi due anni e la prima volta che si sono rivisti di persona, Vladimir Putin e Xi Jinping hanno lanciato un duro monito all’Occidente: «Le nuove relazioni tra Russia e Cina sono superiori all’alleanza politica e militare dell’era della Guerra Fredda». L’agenda è chiara: no all’ulteriore allargamento della Nato in Europa, sostegno economico cinese in caso di sanzioni alla Russia e una posizione comune su Taiwan, che la Repubblica popolare vuole riprendersi. Così la partecipazione del presidente russo alla cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici invernali di Pechino – a cui la delegazione ufficiale americana non è intervenuta in polemica con le violazioni dei diritti degli uiguri in Xinjiang – sembra uno di quei passaggi storici da non perdere. Ma a ben guardare, Putin ha lasciato la capitale cinese con tante parole e un magro bottino.
L’unico risultato concreto raggiunto risiede in due nuovi accordi energetici con l’azienda statale cinese Cnpc. Il primo coinvolge Rosneft, il più grande produttore russo di petrolio, che nei prossimi dieci anni fornirà alla Cina altre 100 milioni di tonnellate di greggio attraverso il Kazakistan. Il secondo riguarda invece Gazprom, che invierà altri 10 miliardi di metri cubi di gas all’anno a Pechino attraverso un nuovo gasdotto. Quest’ultima intesa sa di amarcord perché si innesta su un accordo trentennale firmato proprio nel 2014 da Putin e Xi, con tanto di brindisi col bicchierino di vodka a pochi mesi dall’annessione russa della Crimea. Anche allora, come oggi, fu considerato una “vendetta” di Mosca contro le sanzioni occidentali (attualmente solo minacciate) per il conflitto in Ucraina. Ma la partita è più complessa. «Questo accordo non piove dal cielo ma deve essere inserito in un quadro più generale», spiega a TPI Francesco Sassi, ricercatore di geopolitica dell’energia all’Università di Pisa e al Rie. «Si tratta di un’intesa innanzitutto politica, che non può prescindere dalla componente commerciale».
La pista cinese
Ai 38 miliardi di metri cubi di gas che, secondo l’accordo di otto anni fa, Mosca dovrà esportare ogni anno dal 2025 verso la Cina, se ne andranno ad aggiungere altri dieci, estratti al largo dell’isola di Sakhalin. «Questo nuovo giacimento offshore era stato colpito dalle sanzioni americane, che finora ne avevano impedito lo sviluppo», sottolinea Sassi. «In realtà, del progetto se ne parla già dalla fine del 2015: si tratta di una nuova rete che andrà a integrare il gasdotto Power of Siberia, operativo dal 2019, che attraverso il nord-est della Cina raggiunge Pechino e arriva a Shanghai. L’accordo finale però è stato firmato soltanto la settimana scorsa e già si registrano discrepanze tra la versione cinese e quella russa». Il portavoce del Cremlino, Dimitri Peskov, ha infatti parlato di un contratto valido 25 anni. Fonti di Pechino hanno invece annunciato un’intesa trentennale. «Non è la prima volta che accade: anche nel 2014 le versioni rese alla stampa divergevano», rimarca l’esperto. «Non è una differenza da poco, soprattutto quando si parla di questi volumi: è una quantità pari al gas russo importato da due Stati medi dell’Ue».
Ma non è tutto oro quello che luccica. La fornitura prevista dal contratto originale prevedeva un costo di circa 350 dollari per mille metri cubi, 20 in meno del prezzo medio pagato al tempo dai Paesi europei. Non solo: la Russia si accollava 35 su 55 miliardi di dollari di investimenti infrastrutturali. Secondo stime di Reuters, che in proposito cita Gazprom, la nuova intesa prevederebbe un prezzo medio di 150 dollari per mille metri cubi, mentre le previsioni del colosso russo per i prezzi del gas in Europa nel 2022 arrivano a 550 dollari per mille metri cubi. A queste cifre, se confermate, è evidente che la Cina non potrà sostituire (in tempi brevi) l’Europa come principale acquirente del gas russo. In primis per motivi infrastrutturali: il gasdotto Power of Siberia non è collegato alle reti per la fornitura di gas in Europa. Poi per motivi di tempo: un’eventuale invasione dell’Ucraina sarebbe subito seguita dalle sanzioni mentre ai russi ci sono voluti cinque anni per esportare gas dalla Siberia in Cina e solo nel 2021 hanno raggiunto la metà dell’obiettivo prestabilito. La questione però è più complessa di quanto raccontano i numeri.
L’andamento dei prezzi sul mercato del gas naturale in Asia orientale è molto diverso rispetto al contesto europeo e la responsabilità, neanche a dirlo, è delle scelte operate nel vecchio continente. «In Europa si è privilegiata una strategia di acquisto a pronti, ricorrendo soprattutto al Gnl», osserva Sassi. Tradotto: si compra quanto serve al prezzo corrente di mercato e tutto arriva via nave e non tramite gasdotto. Tutto questo è stato possibile grazie a un occhio di riguardo riservato agli europei dai principali esportatori mondiali di Gnl – Qatar, Australia e Usa – che negli anni non hanno concesso altrettanto favore agli operatori asiatici. «In Estremo Oriente invece l’indicizzazione dei prezzi del gas è tuttora molto più vicina alla stabilità dei corsi del petrolio. Di norma si firmano contratti che durano dai 20 ai 25 anni e così già a settembre e ottobre scorso questi Paesi sono riusciti ad assicurarsi i volumi necessari a superare l’inverno. In Europa invece non abbiamo importato abbastanza gas naturale come dovuto in previsione della stagione fredda». Non a caso, secondo la tedesca Commerzbank, a gennaio le scorte comunitarie di gas naturale erano ai minimi degli ultimi sei anni, mentre i prezzi sono elevati.
Tutto dipende da un diverso approccio: negli ultimi anni l’Ue ha puntato sulle liberalizzazioni per sfruttare un momento in cui il Gnl era abbondante. In tale contesto, il vecchio continente riusciva ad acquistare a buon prezzo e magari a rivendere ad altri. E questo ha spinto Mosca sempre più tra le braccia di Pechino. «La volontà dell’Ue di diversificare le fonti di approvvigionamento e di puntare sul Gnl e la crescita dei mercati in Asia nord-orientale ha portato Gazprom a guardare alla Cina come a un cliente stabile per cui sviluppare i giacimenti della Siberia, che senza un acquirente finale non potevano essere sfruttati», ricorda il ricercatore. «La Cina è il principale mercato per sviluppo del commercio del gas naturale a livello globale: lo è stato negli ultimi 10 anni e lo sarà da qui ai prossimi 20. Mosca vuole approfittarne: Gazprom guarda a Pechino come a un attore con cui instaurare un rapporto di lunga durata, che è la caratteristica più importante per la Russia al di là delle considerazioni finanziarie». Nulla di tutto questo però metterà in discussione, nel breve, i rapporti energetici tra Mosca e Bruxelles.
I rischi per la Russia e l’Ue
«Né l’Europa né la Russia possono permettersi di mettere in discussione gli scambi di gas», rimarca Sassi a TPI. «Eventuali sanzioni non andranno probabilmente a toccare i rapporti energetici, vista anche l’estrema instabilità dei mercati: non converrebbe a nessuno».
Oltre un terzo delle forniture importate dall’Ue arriva infatti dalla Russia, di cui il 26 per cento passa dall’Ucraina. Teoricamente, sarebbe possibile sopperire (in parte) a un’ipotetica chiusura dei rubinetti russi: secondo la Commissione europea, gli impianti di rigassificazione attivi in Europa (Regno Unito incluso) possiedono infatti una capacità di movimentazione complessiva di 19 miliardi di metri cubi di Gnl al mese e ad oggi ne gestiscono meno della metà. Visto che, ogni mese, il continente importa quasi 14 miliardi di metri cubi di gas russo, l’Europa potrebbe compensare gran parte delle forniture garantite da Mosca, almeno sulla carta. Ma la realtà di una crisi in pieno inverno è tutt’altro che rosea. Attualmente ad esempio, i terminal di Gnl in Spagna e Regno Unito non operano ancora a piena capacità al contrario degli impianti in Francia, che sono già saturi. Bisognerebbe quindi trovare un modo per non penalizzare i Paesi con capacità ridotta. Tutto questo ammesso che i fornitori riescano a sostituire il gas russo. Gli altri principali gasdotti europei sono collegati con Norvegia, Algeria e Azerbaigian, tutti Paesi che non sono in grado di aumentare in tempi rapidi le forniture. Bruxelles sarebbe allora costretta a rivolgersi ancora al Gnl, una soluzione poco praticabile anche per l’Agenzia internazionale per l’energia, secondo cui Usa e Qatar non possono aumentare le consegne in modo rapido.
Neanche Mosca può permettersi un tale terremoto, per motivi politici ed economici. Nel 2021 le vendite di petrolio e gas naturale rappresentavano il 36 per cento del bilancio nazionale russo. Non solo: la storia recente mostra come aprire e chiudere i rubinetti a intermittenza consenta al Cremlino di condizionare le politiche europee. Come nel 2009, quando un’altra crisi con Kiev costrinse la Slovacchia e alcuni Paesi balcanici a razionare il gas. Allora tutto si concluse con Putin che ottenne un accordo favorevole con l’Ucraina, con il benestare (forzato) di Usa e Ue, e l’anno successivo con l’elezione di un governo filo-russo. Insomma, il Cremlino non vuole farsi trovare impreparato, non tanto in caso di nuove sanzioni ma sul lungo periodo. La scommessa di Putin ha un respiro più ampio dell’attuale crisi. D’altra parte l’interscambio tra Cina e Russia è arrivato nel 2021 al record di 147 miliardi di dollari, ma se Mosca punta su Pechino, la Repubblica popolare ha anche altre opzioni sul fronte energetico.
La doppia faccia di Xi
All’apertura dei Giochi di Pechino non era presente soltanto Putin ma anche i leader delle repubbliche ex sovietiche di Kazakistan, Uzbekistan, Kirghizistan, Tagikistan e Turkmenistan, nonostante in gara non vi siano né atleti tagiki né turkmeni. Sembra una presenza da poco rispetto al gigante russo eppure sono partner irrinunciabili per la Cina. Non a caso la settimana precedente, in occasione del trentesimo anniversario delle relazioni diplomatiche dopo il crollo dell’Urss, Xi ha presieduto il primo summit tra la Repubblica popolare e i Paesi dell’Asia Centrale promettendo 500 milioni di dollari di aiuti economici. Il tutto in preparazione dei Giochi, quando ha incontrato i leader delle Repubbliche centro-asiatiche. «Per la Cina, l’Asia centrale è un grande laboratorio di diplomazia energetica», ricorda Sassi. «Lo sfruttamento dei giacimenti di questi territori passa da un intervento economico delle compagnie cinesi». Forse il bilaterale più importante è avvenuto con il leader turkmeno Gurbanguly Berdimuhamedow, che ha annunciato la volontà di aumentare le forniture a Pechino attraverso la linea D del gasdotto Asia centrale-Cina. Nonostante i proclami, è il piccolo Turkmenistan e non la Russia a fornire alla Repubblica popolare circa il 60 per cento delle sue importazioni di gas naturale via gasdotto (Gnl escluso). Con buona pace (per ora) di Putin, che può contare però sul tallone d’Achille di questa relazione. «La Cina ha pagato a caro prezzo la costruzione di queste infrastrutture perché i partner turkmeni si sono rivelati piuttosto inaffidabili: negli anni scorsi, per ben due volte e per giunta in inverno, si sono registrati problemi nella fornitura dal Turkmenistan, con Pechino che da un momento all’altro si è trovata a dover comprare Gnl altrove, a prezzi più alti», rimarca il ricercatore. «Inoltre, come visto recentemente, queste Repubbliche sono più instabili di quanto appaiano dall’esterno.
Basti pensare che il Kazakistan era considerato un modello per la transizione democratica in Asia centrale e si è visto come, appena sfuggita la situazione di mano, l’unica in grado di intervenire su richiesta del governo locale è stata la Russia e non la Cina, nonostante i fortissimi legami economici con Pechino, che qui riconosce l’importanza del ruolo stabilizzatore del Cremlino». L’interesse primario della Repubblica popolare nella zona riguarda infatti lo stabile approvvigionamento delle risorse energetiche a prezzi contenuti.
«Pechino dipende fortemente dall’estero per i propri fabbisogni energetici: il timore dell’instabilità sui mercati è il motivo principale dell’attivismo cinese non solo in Asia centrale ma anche in Medio Oriente e America Latina, dove acquista da Iran e Venezuela nonostante le sanzioni», spiega Sassi. Il limite della strategia russa però è rappresentato dalla necessità di Pechino di non inimicarsi l’Europa: le esportazioni cinesi verso il vecchio continente sono dieci volte quelle dirette in Russia. Come dire che la pista cinese è piena di ostacoli. Ma la medaglia da conquistare vale l’indipendenza politica, energetica ed economica.
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