Per la prima volta in oltre 30 anni l’Unione Europea ha imposto nuove sanzioni contro la Cina, aprendo un altro fronte tra i paesi occidentali e Pechino dopo le tensioni al vertice con gli Stati Uniti della scorsa settimana.
Oggi i ministri degli Esteri dell’UE hanno hanno imposto a quattro cittadini e un’entità cinesi misure che prevedono il divieto di ingresso in territorio europeo e il congelamento dei beni per le violazioni dei diritti umani della minoranza musulmana degli uiguri nella provincia nordoccidentale cinese dello Xinjiang.
La Cina ha risposto a sua volta imponendo sanzioni a 10 parlamentari ed accademici europei e quattro istituzioni dell’UE, minacciando ulteriori misure se Bruxelles non rettificherà il suo “errore”.
Si tratta delle prime sanzioni decise dall’Unione Europea contro il governo di Pechino dall’epoca di un embargo sulla vendita di armi imposto nel 1989 dopo la repressione delle proteste di piazza Tienanmen, tuttora in vigore.
La scorsa settimana l’ambasciatore cinese presso l’Unione Europea Zhang Ming ha intimato che le sanzioni “basate su menzogne” potrebbero essere interpretate come volte a “minare deliberatamente” la sicurezza della Cina, giudicando “inaccettabile” la richiesta da parte europea di incontrare l’attivista ed economista uiguro Ilham Tohti, vincitore del premio Sakharov per la libertà di pensiero.
Recentemente infatti le autorità cinesi hanno rifiutato la richiesta da parte degli ambasciatori dell’UE di organizzare una visita nella regione dello Xinjiang che includesse la possibilità di accedere a specifiche aree e un incontro con Tohti, che sta scontando un ergastolo per accuse di separatismo.
A seguito di episodi di violenza e aggressioni di matrice etnica, dal 2009 la Cina ha introdotto misure per reprimere il separatismo nello Xinjiang, popolato dalla minoranza musulmana degli uiguri. Negli ultimi anni
la Cina è stata accusata di aver sottoposto gli uiguri a torture, lavori forzati e sterilizzazioni, trasferendo centinaia di migliaia di persone all’interno di campi di rieducazione per spingerli ad abbandonare la religione islamica e favorendo allo stesso tempo l’afflusso nella regione nordoccidentale di cittadini di etnia Han, maggioritaria nel paese.
A febbraio i Paesi Bassi sono diventati il primo paese europeo a definire il trattamento subito dagli uiguri un genocidio, seguendo di pochi giorni il Canada e di qualche settimana gli Stati Uniti in una delle ultime decisioni dell’amministrazione Trump.
La Cina ha respinto con forza le accuse affermando, nelle parole dell’ambasciatore Zhang, che paesi come Stati Uniti, Regno Unito e Francia non hanno politiche dissimili nei confronti dei musulmani, “avendo istituito centri di deradicalizzazione o centri di correzione” per i terroristi islamici.
Per quanto possano essere considerate simboliche, le misure concordate la scorsa settimana dagli ambasciatori dell’Unione Europea e approvate oggi potrebbero rappresentare un cambio di passo nei rapporti dell’UE con uno dei suoi principali partner commerciali e una risposta alle critiche sorte alla conclusione dell’atteso accordo sugli investimenti con Pechino, che rimuoverà alcune delle barriere agli investimenti delle società europee in Cina, riconoscendo alcune aperture concesse agli Stati Uniti nell’accordo di “Fase 1” negoziato nell’ambito della guerra commerciale.
L’intesa, che deve ancora attraversare diverse fasi prima di essere ratificata dal parlamento europeo possibilmente nel 2022, era stata contestata dai paesi più critici del governo cinese come gli Stati Uniti ma anche da organizzazioni della società civile, tra cui diversi sindacati, che dopo l’annuncio lo scorso dicembre della fine dei 7 anni di negoziati avevano scritto ai leader europei per chiedere di inserire nell’accordo misure per contrastare abusi dei diritti umani.
Proprio a dicembre i governi europei hanno introdotto un nuovo regime di sanzioni per colpire individui ed entità ritenuti responsabili di violazioni dei diritti umani, su proposta degli stati membri o del capo della diplomazia europea Josep Borrell. In base a questo meccanismo, già utilizzato contro la Russia per l’arresto dell’oppositore Alexei Navalny, oggi i ministri degli Esteri dell’UE oltre alla Cina hanno sottoposto a sanzioni altri 11 tra individui ed entità provenienti da Russia, Libia, Sud Sudan e Corea del Nord.
La risposta europea viene incontro alle richieste della nuova amministrazione statunitense guidata Joe Biden di creare un fronte unito nei confronti della Cina, superando le reticenze da parte di alcuni paesi europei di venire coinvolti nello scontro tra le due principali economie al mondo, proprio in concomitanza con la visita del segretario di Stato americano Anthony Blinken in Belgio, dove è arrivato oggi e rimarrà fino al giovedì 25 marzo, incontrando la presidente della commissione europea Ursula von der Leyen e Borrell.
La scorsa settimana le tensioni tra Washington e Pechino si sono palesate in maniera evidente al vertice tra i principali esponenti diplomatici di Washington e Pechino in Alaska, in cui di fronte ai giornalisti Yang Jiechi, a capo della diplomazia del Partito comunista cinese, ha duramente attaccato gli Stati Uniti per l’ipocrisia nella politica estera e il trattamento delle proprie minoranze, affermando che non possono più “parlare alla Cina da una posizione di forza”.
Nonostante la presa di posizione sul fronte dei diritti umani, non è ancora chiaro quanto l’UE sia disposta a sacrificare dal punto di vista dei rapporti commerciali, sempre più stretti dopo la pandemia.
Secondo i dati Eurostat pubblicati a febbraio nell’arco del 2020 la Cina è diventata il principale partner nello scambio di beni dell’UE superando gli Stati Uniti (ancora primo paese per scambi totali considerando anche il commercio di servizi). Le esportazioni di beni hanno infatti visto una crescita del 2,2 percento, per un totale di 202,5 miliardi di euro e le importazioni del 5,6 percento, arrivando a 383,5 miliardi di euro, mentre gli scambi con il resto del mondo hanno visto un forte crollo. In particolare, a fronte della crisi epocale causata dal nuovo coronavirus, le esportazioni di beni verso gli Stati Uniti sono crollate dell’8,2 percento e le importazioni del 13,2 percento.