Mohammad Chaar aveva sedici anni ed era in giro con i suoi amici quando è avvenuta l’esplosione. Il caso ha voluto che si trovasse vicino a Mohamad Chatah, ex ministro delle Finanze libanese e ambasciatore negli Stati Uniti, nel momento in cui è esplosa l’autobomba a lui destinata, che ha ucciso entrambi provocando altre 5 vittime e 71 feriti, lo scorso 27 dicembre.
Come è consuetudine a Beirut, non ci è voluto molto prima che a Chaar, uno spettatore innocente, sia stato assegnato un appellativo alquanto ingombrante. Tutto a un tratto, da “vittima” si è trasformato in “martire”.
Per molti giovani libanesi la morte di Chaar è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Per questo hanno dato vita a una campagna sui social network chiamata “Not a martyr” (#notamartyr). Chiedono la fine di un massacro senza senso, ma anche giustizia per Chaar. Per ottenerla, vogliono che si smetta di chiamare martiri le vittime innocenti della violenza e della lotta settaria che sta crescendo nel Paese.
“Il concetto di martirio è profondamente radicato nella psicologia libanese, segnata dalla guerra”, ha scritto la Cnn riportando la notizia, “Ma una generazione più giovane ora rifiuta l’idea che qualcuno che muoia a seguito di attentati o di sparatorie politiche sia automaticamente un martire.” Infatti, nonostante la parola martire abbia un significato positivo, essi ritengono che fornisca al governo libanese un modo per autoassolversi dall’indagare e punire chi commette atti di violenza e che sia usata per “desensibilizzare” l’opinione comune sulle vittime.
“Se moriamo quando stiamo andando al lavoro o a scuola o a fare le cose della vita quotidiana siamo vittime, non martiri”, ha detto il blogger libanese Gino Raidy. La campagna ha dato voce a molti giovani che desiderano cambiare il Libano e che su Facebook e Twitter parlano di temi come sicurezza, corruzione, diritti degli omosessuali, ma anche diritti degli animali e problematiche legate al traffico.
Le tensioni in Libano sono aumentate negli ultimi mesi con l’aggravarsi della situazione politica in Siria. Gli scontri riguardano da un lato i musulmani sunniti, che appoggiano i ribelli nella guerra civile siriana, dall’altro gli alawiti musulmani, che sostengono il presidente siriano Bashar al-Assad. Le due fazioni hanno una lunga storia di conflitti che risale alla guerra civile libanese tra il 1975 e il 1990 quando si sono schierate l’una contro l’altra.
La situazione potrebbe diventare ancora più difficile nel 2014, dal momento che, secondo le stime dell’Organizzazione mondiale per la sanità, nel corso dell’anno circa un milione e mezzo di rifugiati siriani arriveranno nel Paese, aumentando la vulnerabilità dei libanesi.
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