C’è qualcosa nei suoi occhi. Qualcosa di più dello sconcerto che tanto spesso si vede nei volti degli innocenti, vittime delle guerre d’altri.
È qualcosa che ti perseguita. Qualcosa che ti arriva con forza non alla mente, ma in un luogo più prosaico. Alle viscere. Alle ossa.
Sembra che la sua espressione stia direttamente implorando. Sembra stia chiedendo: “Ti importa? Mi vedi?”.
Quando abbiamo visto questa immagine, non ce n’era un’altra che sembrasse più adatta per l’apertura del nostro sito lo scorso 15 marzo 2015, il giorno in cui la Siria è entrata nel suo quinto anno di miseria e caos. Il suo quinto anno di massacro.
Molti gruppi umanitari, e tanti siriani, quel giorno hanno avuto una grande accusa da muovere. Il mondo, hanno detto, aveva abbandonato il Paese e la sua gente. Al mondo non importava più della Siria.
A volte il giornalismo stesso sembra una lotta per far sì che le persone si interessino a qualcosa. E spesso – forse sempre più spesso – è una lotta affinché sia tu stesso a interessarti.
Ogni giorno, i media hanno a che fare con storie di morte, devastazione e disperazione. Troppo spesso, sembra lavoro lasciato lì per essere svolto. Il salario da guadagnare di una giornata.
Ma noi abbiamo un compito. Perché queste sono storie di altre persone. E meritano di essere ascoltate. Per l’anniversario, abbiamo pubblicato molti contenuti.
C’erano documentari commoventi, forti polemiche, dipinti siriani, grafici, analisi, interviste, curiosità e notizie. C’era una tv in streaming.
Abbiamo provato a trasportare il nostro pubblico nelle vite delle persone coinvolte. E tutto questo nel segno dalla donna insanguinata, che col suo sguardo fisso ha conquistato la maggior parte dello schermo.
Ma il numero di persone che ha visitato il nostro sito quel giorno era ben lontano dalle aspettative. Mentre guardavamo le statistiche che monitorano il traffico degli utenti, quella dolorosa accusa di apatia sembrava giustificata.
Esistono delle variabili, certamente. Gli anniversari non tendono a conquistare l’immaginazione. Alcune persone potrebbero preferire altre fonti d’informazione per seguire le vicende in Siria, e può darsi che il nostro lavoro non sia stato fatto come doveva.
Poi c’è la fatica. Sono stati anni brutali per il mondo. Siria, Iraq, Nigeria, Libia, Repubblica Centroafricana, Sudan del Sud, Ucraina, Somalia e altri. Dominano le storie tetre.
Non ho mai sentito così tanti giornalisti dire che il loro lavoro li sta sfinendo, e nemmeno così tante persone che seguono i telegiornali dire che non riescono più a farlo. Testimoniare è estenuante.
Affrontare la nostra indifferenza
Abbiamo riscontrato un appiattimento del nostro traffico nelle storie sul conflitto in Siria dal 2012, con picchi intermittenti quando si fa notizia: Assad ha detto qualcosa di insolito o la possibilità di missili dall’Occidente.
Recentemente, ci sono state impennate occasionali di traffico dovute a sparate sugli eventi in Siria. Ciononostante, la maggior parte del traffico regolare e costante è perlopiù legato alle vicende dell’Isis. La presa di Fallujah, la caduta di Mosul, le agghiaccianti decapitazioni.
Le controversie fanno quasi sempre notizia. E coloro a cui dovremmo prestare attenzione cadono in secondo piano, quasi fossero personaggi di una narrativa erroneamente e ingiustamente dominata dal grottesco.
Invece, le storie di violenza quotidiana, di guerra e di una routine soffocante non sortiscono lo stesso effetto. Così come le storie di almeno quattro milioni di siriani costretti a lasciare il loro Paese.
Quando twittiamo che il mondo non si sta preoccupando abbastanza, in molti ci retwittano. Ma la maggior parte non clicca il link per leggere le nostre storie.
Forse, vogliono solo dare l’impressione che a loro importi qualcosa. Forse, credono che le persone dovrebbero interessarsi e basta. Ma a loro non importa a sufficienza per arrivare a leggere quello che scriviamo.
È un peccato. Perché questa è un’opportunità per fare il punto della situazione, per discostarsi, per riflettere sul fatto che più di 220mila persone sono state uccise e metà della popolazione è stata costretta a fuggire.
Per chiedere ai siriani di cosa hanno bisogno e per mettere pressione ai nostri governi affinché li accolgano.
La nostra indifferenza è qualcosa su cui dobbiamo riflettere e parlare.
In quanto giornalisti, dovremmo mettere in discussione la qualità del nostro lavoro. In quanto persone, la nostra stessa umanità.
Perché possiamo fare di meglio. E quella donna nella fotografia deve sapere che noi la vediamo.
L’articolo di Barry Malone è stato pubblicato qui. Traduzione a cura di Fernanda Pesce Blazquez
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