Scoppia la tregua in Nagorno-Karabakh e almeno per il momento sembra reggere perché sostenuta dalle armi russe ma la pace in questa porzione di Caucaso appare ancora lontana. I presidenti di Russia e Azerbaigian, Vladimir Putin e Ilham Aliyev, e il primo ministro dell’Armenia, Nikol Pashinyan, hanno firmato nella notte una dichiarazione congiunta per la completa cessazione delle ostilità nel territorio conteso da trent’anni tra le due repubbliche ex sovietiche.
L’intesa, definita “dolorosa” dal premier armeno e una “capitolazione” di Yerevan dal presidente azero, mette fine a oltre 40 giorni di ripresa del conflitto, che hanno provocato altre migliaia di morti che si aggiungono alle quasi 30mila vittime della guerra, conditi da varie accuse di crimini di guerra ed episodi di violenza etnica. Se la firma dell’accordo ha portato in piazza centinaia di persone in festa nella capitale azera, ha anche provocato numerose proteste in Armenia, dove una folla infuriata ha assaltato la sede del governo e alcuni manifestanti hanno addirittura aggredito il presidente del parlamento di Yerevan, Ararat Mirzoyan.
A livello internazionale, la sospensione delle ostilità in un teatro che vede impegnate ancora una volta Turchia e Russia, la prima decisamente schierata con Baku e la seconda in una posizione molto più ambigua sebbene storicamente e culturalmente vicina all’Armenia, crea un’altra occasione di confronto e al contempo di dialogo tra Ankara e Mosca, in uno scenario già visto in Siria, Libia e Ucraina.
Poche ore prima dell’accordo, l’abbattimento di un elicottero e la conseguente morte di due militari russi al confine tra Armenia e Azerbaigian, di cui Aliyev si è pubblicamente scusato con Putin, aveva fatto balenare la possibilità di un intervento militare di Mosca nella contesa, ricordando le tensioni con Ankara provocate cinque anni fa da un episodio simile avvenuto in Siria, in cui erano rimasti uccisi altrettanti piloti russi di un caccia Su-24.
I termini del cessate il fuoco permettono infatti alle truppe di Mosca di mettere piede nel territorio conteso dove, secondo il ministero della Difesa russo, sarà schierato un contingente di pace composto da quasi 2.000 militari e centinaia di mezzi corazzati mentre Ankara guadagnerà un collegamento terrestre diretto con l’Azerbaigian, attraverso la Repubblica autonoma azera di Nakhchivan, circondata da Armenia, Iran e Turchia.
Con l’obiettivo di creare, secondo le parole del presidente russo, “le condizioni necessarie per una soluzione completa e a lungo termine della crisi, su basi di giustizia e nell’interesse dei due popoli”, l’intesa può essere riassunta in 9 punti fondamentali:
- A partire dalla mezzanotte del 10 novembre ora di Mosca, le 22:00 di ieri in Italia, Armenia e Azerbaigian si impegnano a cessare le ostilità, mantenendo le attuali posizioni
- La regione di Aghdam e i territori controllati dall’Armenia nella regione azera di Gaza saranno restituite all’Azerbaigian entro il 20 novembre 2020
- Lungo la linea di contatto in Nagorno-Karabakh e il corridoio di Lachin (che collega l’Armenia all’autoproclamata repubblica dell’Artsakh) sarà schierato un contingente di pace russo composto da 1.960 militari equipaggiati con armi leggere, 90 veicoli corazzati per il trasporto del personale e 380 unità mobili e attrezzature speciali
- Le truppe russe saranno schierate parallelamente al ritiro delle forze armate armene e resteranno nell’area per un periodo di 5 anni, prorogabile automaticamente per altri 5 se nessuna delle parti manifesterà l’intenzione di disconoscere l’accordo nei sei mesi precedenti la sua scadenza
- Per monitorare l’attuazione degli accordi, si costituirà un centro apposito per controllare il rispetto dei termini da parte delle forze in conflitto
- L’Armenia restituirà la regione di Kelbajar all’Azerbaigian entro il 15 novembre 2020 e quella di Lachin entro il 1 dicembre 2020, escluso un corridoio ampio 5 chilometri che garantirà il collegamento armeno con il Nagorno-Karabakh ma che non interesserà la città di Shushi: nei prossimi tre anni è atteso un piano edilizio per la realizzazione di un’arteria stradale lungo il corridoio di Lachin per collegare il capoluogo Stepanakert con l’Armenia, su cui saranno dispiegate le truppe di pace russe e dove le forze azere garantiranno il passaggio sicuro di persone, veicoli e merci in entrambe le direzioni
- Rifugiati e sfollati torneranno alle proprie case in Nagorno-Karabakh e nelle aree adiacenti sotto la direzione dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr)
- Le parti procederanno a uno scambio di prigionieri di guerra, di altri detenuti e dei corpi dei caduti
- Tutti i trasporti e i collegamenti economici nella regione contesa saranno sbloccati: l’Armenia garantirà un collegamento tra la Repubblica autonoma di Nakhchivan e l’Azerbaigian, assicurando il passaggio sicuro di persone, veicoli e merci in entrambe le direzioni mentre le comunicazioni saranno garantite dalle Guardie di frontiera del Servizio federale di sicurezza (Fsb) russo.
L’accordo, firmato dalla parte armena dopo “una profonda analisi della situazione militare” e definito dagli azeri nient’altro che una “capitolazione”, segue una serie di insuccessi registrati sul campo da parte delle forze di Yerevan, soverchiate dalla superiorità tecnologica e di spesa di Baku. Se il bilancio per la difesa di Armenia e Azerbaigian vale infatti circa il 5 per cento del Prodotto interno lordo (Pil) dei due Paesi, lo squilibrio in termini assoluti è tutto a favore degli azeri, che ogni anno spendono circa 2,73 miliardi di dollari nel settore militare a fronte dei quasi 500 milioni degli armeni.
Non solo: negli ultimi anni gli acquisti di armamenti da parte di Baku, alimentati dalle ingenti riserve nazionali di idrocarburi, hanno portato il Paese caucasico alla guerra moderna. Il conflitto infatti ha visto schierati da una parte un esercito capace di contare su missili, droni e armamenti di ultima generazione forniti agli azeri da Israele e Turchia, che in Caucaso ha inviato anche mercenari siriani, e dall’altra volontari e militari del Nagorno-Karabakh e delle forze armene, equipaggiati con armi meno tecnologiche e impossibilitati ad accedere a sistemi di difesa moderni.
Nonostante le evidenti inferiori capacità di spesa militare rispetto agli avversari azeri e forte dell’appartenenza all’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva, per anni Yerevan ha fatto affidamento sulla protezione di Mosca, che mantiene due basi in Armenia, compresa una aerea, in cui il Cremlino schiera tra i 3.000 e i 5.000 soldati, a fronte del completo ritiro delle truppe russe dall’Azerbaijan, concluso nel 2013, mentre da oltre 20 anni Baku non fa più parte dell’alleanza militare guidata dalla Russia e non aderisce neanche a quell’Unione economica eurasiatica su cui il Cremlino punta molto.
Proprio le forze russe, schierate ormai anche nel territorio conteso, rappresentano la variabile decisiva che, almeno per il momento nonostante le dichiarazioni del premier Pashinyan, sta garantendo il rispetto del cessate il fuoco raggiunto nella notte tra le parti, dopo ben tre accordi di tregua sistematicamente violati, due mediati dal Cremlino e uno dagli Stati Uniti. Eppure, i termini stessi dell’intesa, a cui secondo il presidente azero Aliyev gli armeni sono stati “costretti”, non fanno ben sperare per una futura soluzione pacifica del conflitto.
L’accordo, concluso nel rispetto delle Risoluzioni n. 822, 853, 874 e 884 del 1993 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, permette infatti all’Azerbaigian di mantenere il controllo su località importanti per gli armeni come Hadrut e soprattutto la città-simbolo di Shushi, sede di uno dei più rappresentativi monumenti religiosi dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh, quella Cattedrale di Ghazanchetsots colpita lo scorso mese da una serie di bombardamenti delle forze azere, e la cui riconquista 27 anni fa e il successivo restauro gioca un ruolo significativo nell’immaginario e nella narrazione del conflitto trentennale da parte armena.
Lo scorso mese, il vescovo di Shushi, Padre Andreas Tavadyan, aveva spiegato in una testimonianza esclusiva a TPI l’importanza della Cattedrale, definendo una “ferita nell’anima” e “un duro colpo per l’identità” armena il bombardamento della chiesa, al centro di tanti scontri nelle diverse fasi della guerra in Nagorno-Karabakh.
Tra il 1989 e il 1992, il complesso religioso, considerato il secondo centro spirituale più importante dell’autoproclamata Repubblica, fu infatti trasformato in un arsenale dagli azeri: il vicino monastero e la chiesa furono gravemente danneggiati durante gli scontri avvenuti allora in città, prima conquistata dalle forze di Baku e poi ripresa dagli armeni. Una “storica” vittoria definita qualche anno fa “di Davide contro Golia” dalla giornalista Anna Mazzone, autrice del documentario “Nagorno Karabakh, la guerra dimenticata”.
Lo stesso annuncio da parte del leader del territorio conteso, Arayik Harutyunyan, di una prossima ricostruzione della cattedrale a poche ore dall’ultimo bombardamento azero ne dimostra il valore simbolico e il rischio costituito dal controllo della zona da parte di Baku per un vero accordo di pace, soprattutto visti i “costi” umani pagati dalla popolazione.
La ripresa delle ostilità e gli scontri avvenuti tra il 27 settembre e il 9 novembre 2020 hanno provocato almeno 1.302 vittime tra i militari e 49 tra i civili del Nagorno-Karabakh e oltre 100 mila sfollati e rifugiati, pari a circa il 70 per cento della popolazione del territorio conteso. A questi vanno ad aggiungersi migliaia di vittime tra i soldati azeri, 250 tra i mercenari siriani e almeno 92 civili morti e oltre 400 feriti in Azerbaigian. Secondo il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef), il totale delle persone costrette ad abbandonare le proprie abitazioni nell’area supera le 130 mila mentre a fine ottobre il presidente russo Vladimir Putin ha dichiarato che il bilancio delle vittime si avvicinava a circa 5.000 morti.
Non è soltanto questione di numeri: secondo quanto documentato da Human Rights Watch, l’Azerbaigian ha ripetutamente utilizzato munizioni a grappolo, vietate dalle leggi internazionali, nelle aree residenziali del Nagorno-Karabakh, un crimine denunciato anche dall’Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, Michelle Bachelet. Inoltre, le accuse di maltrattamenti ed esecuzioni sommarie di prigionieri armeni da parte di forze fedeli a Baku hanno contribuito a inasprire gli animi, aggiungendosi alle denunce da parte di intellettuali e autorità locali di un concreto rischio di pulizia etnica contro gli armeni, un pericolo acuito dal controllo dell’Azerbaigian sui territori contesi.
Lo scorso mese, il difensore dei diritti umani dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh, Artak Beglaryan, ha denunciato in esclusiva a TPI “mutilazioni dei corpi dei soldati armeni caduti” da parte delle forze azere e l’entrata in azione di squadroni della morte a Hadrut, che in un caso avrebbero ucciso civili “nelle proprie abitazioni, compreso un ragazzo disabile e sua madre”, un episodio confermato al nostro giornale anche dal difensore dei diritti umani in Armenia, Arman Tatoyan, secondo cui il giovane sarebbe stato colpito “mentre teneva le braccia alzate in segno di resa”. Tatoyan ha inoltre rivelato anche episodi di “militari prigionieri, corpi di caduti e civili armeni sottoposti a trattamenti degradanti, picchiati e insultati”.
Le autorità armene e quelle del Nagorno-Karabakh hanno poi accusato Baku di aver impiegato persino munizioni al fosforo bianco, anch’esse vietate dalle leggi internazionali, nelle vicinanze di aree abitate, un’accusa prontamente respinta dalle autorità azere ma che ha ricordato le medesime denunce dei gruppi armati curdi contro la Turchia nelle operazioni lanciate lo scorso anno da Ankara nel nord della Siria.
Proprio lo scenario siriano potrebbe offrire qualche indizio sul futuro della contesa in Nagorno-Karabakh, almeno per quanto riguarda i rapporti tra le due grandi potenze coinvolte: Turchia e Russia. Come accaduto nel Paese arabo e sfruttando un’ambigua vicinanza sia a Baku che a Yerevan, Mosca è riuscita a mediare un accordo per sospendere le ostilità nonostante l’invio di rifornimenti militari e il supporto garantito all’Armenia, aprendo l’ennesimo canale di de-escalation con Ankara.
Da giorni infatti, i presidenti turco e russo, Recep Tayyip Erdogan e Vladimir Putin, e i rispettivi ministri degli Esteri, Sergej Lavrov e Mevlut Cavusoglu, sono stati impegnati in una serie di colloqui telefonici per discutere la possibile soluzione del conflitto e i dossier aperti in Libia e Siria, dove Ankara e Mosca restano su posizioni opposte, su cui poi inevitabilmente finiscono per doversi accordare in un modo o nell’altro, con conseguenze importanti. L’ultimo accordo ridisegna in parte la mappa del Caucaso meridionale senza alcun contributo da parte delle potenze europee o degli Stati Uniti, nonostante Parigi e Washington aderiscano al Gruppo di Minsk dell’OSCE, l’organismo deputato alla mediazione internazionale in Nagorno-Karabakh.
L’intesa, che sancisce di fatto la sconfitta dell’Armenia, è per ora l’unica davvero attuata ma non cambia di molto gli equilibri della regione, almeno secondo Paolo Crippa, analista di questioni relative a Difesa e Sicurezza per il CeSI – Centro Studi Internazionali. “Gli accordi li raggiungono le parti in conflitto”, spiega Crippa a TPI. “La tregua mediata dagli Stati Uniti è saltata perché un attore lontano come Washington, in un contesto così intricato come quello del Caucaso, difficilmente riesce ad avere anche solo il polso della situazione in un territorio in cui non ha mai avuto una presenza stabile e di cui generalmente si occupa poco: in questo caso la parte del leone la fanno Russia e Turchia, perché si trovano lì”.
Il moltiplicarsi dei canali di “deconfliction”, che consentono cioè di prevenire le conflittualità, non deve però far pensare a un coordinamento stabile tra i due Paesi. “Russia e Turchia non si muovono a braccetto”, osserva Crippa. “Ankara e Mosca sono le potenze emergenti nella regione e si impegnano in tutti i teatri in cui si apre una finestra di opportunità: di volta in volta confliggono o convergono su interessi comuni e questo è parte delle dinamiche fluide sperimentate negli ultimi anni nel Mediterraneo”. E’ uno scenario già visto in Libia e soprattutto in Siria: in questi casi, secondo l’analista del CeSI, “la Russia ha sempre assunto il ruolo del mediatore, che fa comodo al Cremlino, a fronte di una Turchia che, come media potenza regionale emergente, non ha a disposizione gli strumenti necessari per mettere in piedi autonomamente un processo negoziale multilaterale”. I colloqui però servono a tutelare via via gli interessi di ciascuna delle parti nel teatro considerato ma non si inseriscono in un contesto più ampio, nonostante le similitudini.
Anche al conflitto in Caucaso, come ad esempio in Libia, non possono infatti essere estranei i mercenari stranieri reclutati nelle zone della Siria controllate dalla Turchia e su cui la Russia ha recentemente ripreso i bombardamenti. Secondo la giornalista statunitense Lindsey Snell, esperta di terrorismo e gruppi armati in Siria, le chat dei combattenti a contratto impiegati a fianco dell’Azerbaigian, per lo più provenienti da milizie sostenute da Ankara, brulicano di messaggi in cui si esalta la “vittoria” conseguita nel territorio conteso, legata inevitabilmente alla sorte degli ultimi territori ribelli alle forze di Bashar al-Assad appoggiate da Mosca e Iran. Una delle questioni più spinose ignorate dall’accordo di cessate il fuoco tra Armenia e Azerbaigian riguarda proprio questi miliziani, la cui sorte non è contemplata dall’intesa mediata dalla Russia, ma che sembrano avere le idee chiare. “Abbiamo vinto in Azerbaijan, abbiamo vinto in Libia e vinceremo in Siria”, esultano alcuni mercenari citati dalla cronista americana, che prevede una nuova avanzata delle truppe del regime di Damasco e dei loro alleati a Idlib, in conseguenza degli accordi raggiunti in Nagorno-Karabakh.
“Negli ultimi giorni, le forze turche si stanno spostando sempre più verso le zone orientali della Siria, lasciando progressivamente l’area di Idlib”, riconosce Crippa, predicando però cautela. “Siamo in un contesto fluido con un canale di deconfliction aperto in Nagorno-Karabakh, in Siria e in Libia attraverso cui Russia e Turchia si parlano direttamente, scegliendo quali informazioni condividere e quali no e su quali obiettivi convergere o meno: è un gioco senza regole prestabilite, soprattutto a livello diplomatico”.
A quanto pare la pace in questa porzione di Caucaso e non solo sembra ancora lontana.
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