Esclusivo TPI – Radio Nagorno, notizie dal fronte: il cessate il fuoco non regge, l’odio e gli scontri continuano a mietere vittime e all’ennesima “catastrofe umanitaria” in corso alle porte d’Europa si aggiunge il pericolo della formazione di squadroni della morte contro i civili. “Il rischio di pulizia etnica contro gli armeni è molto alto”, denuncia a TPI Artak Beglaryan, responsabile dei diritti umani dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh, quel Nagorno-Karabakh conteso tra Armenia e Azerbaigian dove si continua a morire. Rimasto ceco in passato a causa dello scoppio di una mina piazzata dall’esercito azero, il politologo ha chiesto al resto del mondo di cominciare ad agire per la popolazione della regione caucasica. “Siamo di fronte a una vera catastrofe umanitaria in Karabakh, che deve affrontare una guerra nel corso di una pandemia, senza alcun serio aiuto da parte della comunità internazionale”.
“Non c’è mai stato un vero e proprio cessate il fuoco, finora”, accusa Beglaryan, secondo cui dall’inizio della tregua umanitaria mediata dalla Russia le forze azere hanno continuato a colpire con missili e pezzi di artiglieria varie città come Stepanakert, Martuni e Shushi, mentre gli scontri e i combattimenti al fronte non si sono mai fermati, nonostante le rassicurazioni del ministero della Difesa di Baku. “Dall’entrata in vigore della tregua, abbiamo già registrato la morte di 5 civili: di cui 4 uccisi da ‘gruppi sovversivi’ nella città di Hadrut, abbattuti a colpi di pistola nelle proprie abitazioni, compreso un ragazzo disabile e sua madre”.
La guerra, ripresa a partire dal 27 settembre e che ha provocato da allora la morte di centinaia di persone da entrambe le parti, civili compresi, non è confinata al campo di battaglia ma coinvolge la popolazione fin dentro le proprie case, anche dopo gli accordi di Mosca. “Il cessate il fuoco avrebbe dovuto avere inizio a mezzogiorno del 10 ottobre ma l’Azerbaijan ha proseguito le operazioni militari, avvalendosi di questi ‘gruppi sovversivi’ e dell’artiglieria”, rimarca il responsabile dei diritti umani dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh. “Non sappiamo esattamente chi faccia parte di questi squadroni ma dalle nostre informazioni iniziali si tratta di unità composte sia da soldati dell’esercito azero che da mercenari”. Negli scorsi giorni, le autorità armene hanno accusato in particolare la Turchia di “sostenere l’aggressione” in Nagorno-Karabakh non solo con forniture militari ma anche con l’uso di mercenari stranieri, provenienti in particolare dalla Siria, un’accusa rilanciata anche dall’Osservatorio siriano per i diritti umani e dal dittatore Bashar al-Assad.
La preoccupazione maggiore riguarda possibili violenze etniche in un’area del mondo già teatro di indicibili atrocità. “Il rischio di pulizia etnica è molto alto e non aiuta di certo il coinvolgimento di mercenari e terroristi provenienti da Siria e Libia, che già hanno esperienza di episodi di genocidio: inoltre, preoccupa anche il sostegno politico e militare all’Azerbaigian da parte della Turchia, responsabile del genocidio armeno nel Novecento, tuttora negato da Ankara”, denuncia Beglaryan. “Anche Baku ha una storia di ostilità verso gli armeni: oltre 400 mila di loro vivevano nel Paese alla fine dell’era sovietica, da dove sono poi dovuti fuggire a causa delle guerre degli anni Novanta, caratterizzate da varie terribili violenze. Anche durante la ripresa della guerra nel 2016 abbiamo registrato diverse atrocità da parte azera, celebrate e persino premiate dalle attuali autorità e dallo stesso presidente Ilham Aljev”.
I timori del rappresentante del Nagorno-Karabakh, condivisi da vari intellettuali armeni all’estero, affondano le proprie radici in diversi episodi avvenuti in passato nella regione contesa. “Per decenni, Baku ha condotto una campagna ‘armenofoba’ e di odio, incoraggiando ogni genere di atti contro gli armeni, compresi omicidi e violenze contro i civili: ricordo il caso di un soldato azero, che nel 2016 decapitò due militari armeni, proprio come faceva l’Isis, scattando alcune foto poi divulgate”, sottolinea il politologo. “Quest’uomo fu in seguito pubblicamente premiato dal presidente azero Aljev mentre ancora oggi registriamo episodi di mutilazioni dei corpi dei soldati armeni caduti, incoraggiate dalle autorità azere: su questa base, se si creeranno le condizioni, c’è il rischio di una pulizia etnica in Karabakh”.
Le autorità dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh denunciano inoltre il ricorso ad armi pesanti contro le aree residenziali, compresi droni armati di fabbricazione turca e razzi progettati in epoca sovietica come pezzi da campagna contro mezzi corazzati. In proposito, Beglaryan ha ricordato la morte di “un uomo di 75 anni ucciso in un bombardamento azero a colpi di artiglieria”, dopo l’entrata in vigore del cessate il fuoco. “Al momento, il conto totale delle vittime tra i civili dal rinfocolarsi degli scontri si attesta a 25, con oltre 102 feriti, comprese donne, minori e anziani”.
Nelle scorse ore, anche l’Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, Michelle Bachelet, si è detta preoccupata per l’uso di bombe a grappolo in Karabakh. ”Abbiamo le prove che sin dalla ripresa delle ostilità il 27 settembre le forze azere abbiano fatto ampio ricorso, anche contro le zone residenziali, a bombe a grappolo e a sistemi d’arma di fabbricazione israeliana, russa, bielorussa, turca, ucraina e di altri Paesi”, denuncia il rappresentante per i diritti umani dell’autoproclamata Repubblica caucasica. “Le forze azere hanno sistematicamente colpito aree densamente popolate con armi pesanti, compresi sistemi balistici come i missili teleguidati LORA e i razzi d’artiglieria EXTRA di fabbricazione israeliana, i lanciarazzi multipli russi Smerch, quelli bielorussi Polonez e i turchi Sakarya. Inoltre, l’esercito di Baku ha utilizzato anche i sistemi LAR-160 israeliani, che lanciano razzi con testata multipla e non solo”.
I residenti locali denunciano da settimane il ricorso da parte delle forze di Baku a pezzi di artiglieria pesante contro i centri abitati: come ad esempio a Shushi, dove è stata colpita la Cattedrale di Ghazanchetsots, vero simbolo religioso per gli armeni della regione, ma anche a Barda, nelle zone intorno a Terter e Aghdam e nella capitale dell’autoproclamata Repubblica, Stepanakert. “Hanno bombardato ovunque”, racconta a TPI la giovane Shushanik, che vive in città e contribuisce alla distribuzione degli aiuti ai residenti locali. Per 13 giorni consecutivi, prima del cessate il fuoco mediato a Mosca, Stepanakert è stata colpita dalle forze di Baku, che non si sono limitate a mirare a obiettivi militari. “Moltissime case, negozi e altri edifici, persino religiosi, come la Cattedrale di Shushi, sono stati colpiti: questo mi fa capire fino a che punto è disposto ad arrivare l’esercito azero”.
Le conseguenze sulla popolazione civile sono gravissime. “Siamo in ‘zona di guerra’ dal 27 settembre e le nostre vite da allora non sono più le stesse”, prosegue la ragazza. “Durante i primi giorni gli scontri erano confinati al fronte, poi sono arrivati i bombardamenti sulle città e da lì è stato sempre peggio: riceviamo notizie orribili dai luoghi dei combattimenti da amici e parenti e ogni secondo aspettiamo una loro telefonata”. Molte persone sono già state costrette a lasciare le proprie case a seguito dei bombardamenti. “La mia famiglia vive nell’Artsakh (Nagorno-Karabakh) ma tutti eccetto me hanno lasciato la capitale”, spiega Shushanik. “Non abbiamo mai pensato nemmeno per un momento di abbandonare il nostro Paese: abbiamo solo messo al sicuro i nostri bambini, come i miei cugini più piccoli ad esempio”.
Si tratta di un’altra crisi umanitaria in corso alle porte d’Europa. “A causa dei bombardamenti indiscriminati sulle aree abitate dai civili, oltre la metà dell’intera popolazione locale, più di 75 mila persone, in maggioranza donne, bambini e anziani, ha dovuto abbandonare le proprie case, riparando in altre località o in Armenia”, rivela Beglaryan. “Le forze azere stanno inoltre deliberatamente colpendo le infrastrutture vitali in tutto il territorio, compresi impianti elettrici, gasdotti, acquedotti, reti di telecomunicazione: così, per diversi giorni, decine di migliaia di persone sono state private dell’elettricità, del segnale telefonico mobile e di Internet e vivono senza acqua calda e senza riscaldamento”.
La situazione non è mitigata nemmeno dall’impegno delle associazioni locali, che possono fare poco per aiutare la popolazione. “Le persone vivono per lo più in rifugi di fortuna, senza carburante e con le sirene aeree che risuonano continuamente, ormai è una specie di colonna sonora per me”, aggiunge in tarda serata la giovane Shushanik, stremata da un’intera giornata passata a distribuire aiuti a Stepanakert. “Ogni giorno vedo tante macerie e la mia città in fumo ma noi restiamo qui: non ce ne andremo”.
Di fronte a questa situazione, la comunità internazionale si muove con troppa lentezza. “E’ una vera crisi umanitaria ed è già tardi: in Karabakh fa freddo di questi tempi e molte persone vivono in rifugi di fortuna o in cantine senza riscaldamento e andiamo verso l’inverno”, osserva il responsabile dei diritti umani dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh. “Oltre la metà degli abitanti sono sfollati o rifugiati, ecco perché parlo di ‘catastrofe umanitaria’ e alla luce di tutto questo non riceviamo alcun serio aiuto da parte della comunità internazionale”.
Per questo, Beglaryan ha lanciato un appello al resto del mondo e alle organizzazioni umanitarie globali. “Al momento qualcosa arriva dal Comitato Internazionale della Croce Rossa ma in volumi davvero troppo limitati per soddisfare le esigenze di base della popolazione in confronto alle necessità: in compenso non c’è alcun tangibile sostegno umanitario da parte delle più importanti Ong internazionali né dai governi di altri Paesi”, sottolinea il politologo. “Abbiamo ricevuto alcuni aiuti da varie piccole associazioni ma la maggior parte arrivano dal nostro governo, da quello di Yerevan, dalla società civile in Armenia e dalla diaspora armena”.
Intanto, nonostante i passi avanti compiuti dalla diplomazia, Armenia e Azerbaigian continuano ad accusarsi a vicenda di aver violato il cessate il fuoco entrato in vigore nel fine settimana e mediato a Mosca dai ministri degli Esteri russo, armeno e azero, Sergej Lavrov, Zohrab Mnatsakanyan e Jeyhun Bayramov. Almeno 7 persone sono rimaste uccise e 33 ferite, tra cui anche molti minori, in un bombardamento compiuto nella notte tra sabato 10 e domenica 11 ottobre sulla città di Ganja, la seconda più grande dell’Azerbaijan. Il ministero della Difesa del Nagorno-Karabakh ha negato ogni addebito mentre Baku accusa direttamente Yerevan, in una guerra che si combatte anche a colpi di opposta propaganda. L’Armenia ha definito fondamentale per i futuri negoziati l’istituzione di meccanismi credibili di verifica del cessate il fuoco, la Francia ha criticato le violazioni della tregua mentre i ministri della Difesa russo, Sergey Shoygu, e turco, Hulusi Akar, hanno discusso oggi al telefono gli ultimi sviluppi in Nagorno-Karabakh, Siria e Libia, dove Mosca e Ankara si sfidano su fronti opposti.
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