Sono almeno 470 mila le persone rimaste uccise o ferite nel conflitto siriano che si protrae oramai da cinque anni. Esse corrispondono a circa l’11,5 per cento della popolazione complessiva siriana.
Lo ha reso noto il Centro per la ricerca politica (Scpr), un think tank indipendente, nel suo ultimo rapporto dal titolo Confronting Fragmentation, realizzato in collaborazione con l’Istituto per la politica e gli affari internazionali Issam Fares dell’Università americana di Beirut.
Il rapporto diffuso l’11 febbraio 2015 prende in considerazione l’ultimo anno di conflitto civile in Siria, analizzando e documentando ogni tre mesi la condizione socio-economica del paese e gli effetti provocati dalla guerra sul tessuto sociale, economico, politico e culturale della Siria.
Gli studi effettuati hanno mostrato un paese profondamente frammentato, una sorta di buco nero che ha inghiottito dentro di sé infrastrutture, risorse umane, servizi, e che ha cancellato una parte sostanziale della ricchezza della nazione. La perdita economica totale per l’anno 2015 si è attestata intorno ai 254 miliardi di dollari, con una contrazione del prodotto interno lordo pari al 4,7 per cento rispetto al 2014.
I prezzi al consumo sono aumentati del 53 per cento nell’ultimo anno, mentre le condizioni di lavoro e di retribuzione sono calate in maniera vertiginosa. Infatti, secondo quanto si dice nel report, sono circa 13,8 milioni i siriani che hanno perso il lavoro dal 2011 a oggi. Il tasso di povertà si è attestato intorno all’85 per cento nel 2015.
La mancanza di sicurezza e la perdita di ogni fonte di sostentamento, ha costretto migliaia di siriani ad abbandonare le loro case. Sono stati circa 6,36 milioni gli sfollati interni, e più di 4 milioni i profughi che hanno cercato di raggiungere l’Europa o paesi limitrofi come la Turchia.
(Nel video qui sotto: rifugiati siriani al confine con la Turchia)
In questo quadro impietoso, l’unico settore ad aver registrato una lieve ma significativa crescita rispetto al 2011, anno di inizio del conflitto, è stato quello agricolo. Tuttavia, il processo di deterioramento causato da cinque anni di guerra, ha colpito soprattutto i servizi pubblici, manifatturieri, minerari e i servizi come il trasporto e le vie di comunicazione.
Gli effetti peggiori, come ha sottolineato il rapporto, si sono registrati sulle persone. Nel 2015, circa il 45 per cento della popolazione siriana è stata costretta a spostarsi dai centri abitati danneggiati dalle bombe.
Delle 470 mila persone uccise o rimaste ferite dalla guerra, almeno 400mila sono quelle rimaste coinvolte in modo diretto nelle violenze dei bombardamenti, mentre 70mila sono state vittime della mancanza di servizi adeguati per la salute. Questi non hanno avuto accesso alle cure mediche, o sono stati colpiti da malattie croniche.
Ad aggravare le condizioni di vita delle persone anche la mancanza di cibo, di acqua potabile, di servizi igienico-sanitari e di alloggi adeguati. Anche l’aspettativa di vita media è calata in maniera drastica, passando dai 70 anni del 2010 ai 55 anni del 2015.
Gli sforzi umanitari nei grandi centri colpiti, come Aleppo, hanno quasi raggiunto un punto di rottura, mentre il tasso di mortalità in termini statistici è passato dal 4,4 per mille del 2010 al 10,9 per mille del 2015.
Numeri contrastanti
I dati forniti dal Centro di ricerche siriano contrastano nettamente con quelli diffusi dalle agenzie delle Nazioni Unite, che parlano di 250mila morti dall’inizio del conflitto. “Ma si tratta di numeri e informazioni non aggiornati da 18 mesi” ha dichiarato Rabie Nasser, autore del documento, a The Guardian.
“Noi usiamo metodi di ricerca rigorosi e siamo sicuri di quanto trascritto sul report. Le morti indirette aumenteranno in futuro, anche se la maggior parte delle organizzazioni non governative e le Nazioni Unite le ignorano, sottovalutando così il numero di vittime”.
L’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani ha smesso di contare i morti a metà del 2014, citando come ragione principale l’impossibilità ad accedere all’interno di alcune aree per poter verificare. “Questo ha di fatto ridimensionato la fiducia verso le fonti da loro citate e i numeri da loro forniti” ha commentato ancora il ricercatore.
Il Centro per la ricerca politica fino a poco tempo fa aveva una sede attiva nella capitale siriana, Damasco. Sempre molto attento a non criticare il governo siriano o i suoi alleati – Iran, Hezbollah e Russia – l’istituto ha sempre impiegato dei toni neutri sui contenuti dei report, riferendosi principalmente a gruppi armati il cui fine era rovesciare il presidente siriano. Ma nonostante tutto, i risultati della ricerca mostrano un quadro impietoso del paese.
La relazione ha rilevato inoltre la lentezza del resto del mondo a svegliarsi davanti alle dimensioni della crisi. “Solo quando la crisi ha avuto un impatto diretto sulle società dei paesi sviluppati, la questione della loro dignità e del rispetto dei diritti umani ha attratto l’attenzione globale, malgrado siano ormai cinque anni che i siriani soffrono”.
Questo stato di frammentazione se non adeguatamente affrontato, può durare per lungo tempo, sedimentandosi come unica alternativa a qualsiasi tentativo di stabilizzazione.