La testimonianza di Msf un mese dopo l’incendio al campo di Moria
È trascorso quasi un mese da quando il centro d’identificazione per migranti di Moria ha preso fuoco il 9 settembre, ma dopo le fiamme e la speranza che qualcosa potesse finalmente cambiare per i circa 13mila migranti che abitavano il campo, per la maggior parte di questi tutto è tornato come prima. Se possibile, peggiorato. Almeno 8mila persone sono state ricollocate in breve tempo in una tendopoli dove le condizioni sono le stesse di quelle che avevano lasciato dopo il rogo: servizi igienici inesistenti, infrastrutture fatiscenti e incertezza completa riguardo il futuro. L’iter per processare le richieste di asilo è rallentato da una macchina burocratica che funziona a fatica, la stessa che dal 2016 ad oggi ha bloccato migliaia di persone nell’hotspot in attesa che le autorità decidessero se trasferirli sulla terraferma o rispedirli in Turchia, come previsto dall’accordo stipulato tra Bruxelles e Ankara.
A raccontare la situazione dopo il rogo è Marco Sandrone, capo progetto di Medici Senza Frontiere che da oltre un anno coordina le attività della clinica che Msf gestisce fuori dal campo di Moria. “L’incendio è stata una delle cose peggiori che abbia mai visto in questo anno e mezzo”, racconta a TPI, descrivendo uno scenario post apocalittico in cui gli evacuati sono stati lasciati a se stessi per almeno una settimana nell’impossibilità di raggiungere la capitale, Mitilene, perché bloccati dalla polizia, protestando sotto il sole senza acqua ne cibo. “Nelle dinamiche di quello che sarebbe potuto succedere l’incendio ha avuto un impatto ridotto, perché non ci sono state vittime, ma il risvolto drammatico è stata la gestione da parte del governo, innanzitutto nella settimana successiva all’incendio. Migliaia di persone in mezzo a una strada senza alcun tipo di servizio o assistenza. Le autorità si sono preoccupate esclusivamente di costruire questo nuovo campo, che in tutto e per tutto rappresenta una fotocopia di quello che era Moria in termini d servizi offerti e di condizioni di vita al limite dell’umano”, spiega Sandrone. Solo una minima parte – circa 1.000 persone tra famiglie e i minori stranieri non accompagnati – è stata spostata sulla terra ferma per decongestionare l’isola.
“Ci si aspettava sinceramente che questo evento radicale potesse innescare una riconsiderazione rispetto alle strutture d’accoglienza e alla strategia europea e greca di governo del fenomeno. Questo non è stato minimamente fatto. Non abbiamo visto nulla di tutto ciò, anzi. Con quello che si intravede nel nuovo migration pact viene confermata la volontà di continuare politiche di contenimento sulle isole, che hanno un impatto devastante sulla salute medica e mentale delle persone, costrette per mesi a vivere nelle stesse condizioni”, continua ancora Sandrone. Il nuovo patto sull’immigrazione e l’asilo presentato dalla Commissione Europea il 22 settembre prevede un sostanziale rafforzamento degli accordi con i Paesi di transito come la Turchia – oltre che con quelli di origine – per bloccare all’origine le persone che provano a raggiungere l’Europa. Una politica di esternalizzazione delle frontiere che rischia di riproporre il modello greco anche su altri confini esterni, come il Marocco, con la creazione di “nuove Moria”, e cioè altri campi di confinamento in cui i richiedenti asilo vengono privati della propria dignità.
A Lesbo la nuova tendopoli – chiamata informalmente Kara Tepe – ha tutta l’aria di essere una soluzione permanente per chi giunge sulle coste greche attraverso il mar Egeo. “Il campo che è stato costruito nella totale emergenza è anche peggio di quello di Moria”, assicura Sandrone. “La posizione in cui si trova non garantisce protezione dalle intemperie, è uno dei più ventosi che si potesse ipotizzare. L’inverno sarà ancora più drammatico e non sembra possibile costruire una rete igienica appropriata. Tutt’oggi dopo un mese quasi non ci sono docce. Le persone si lavano nel mare, ci sono solo bagni chimici, gli standard sono al di sotto della soglia emergenziale”.
A Kara Tepe l’acqua viene portata attraverso alcune cisterne e ci sono sei o sette punti d’acqua dove la gente riempie i bidoni per fare da sé. “Non avevo mai visto sorgere docce fatte di teloni e bastoni, costruite dagli stessi ospiti. Non c’è luce, di notte è buio pesto. Dal punto di vista della protezione dei più vulnerabili questo campo assomiglia a una infrastruttura che si può vedere in Chad“, afferma Sandrone, che spiega come la situazione sia problematica e paradossale anche per gli stessi operatori umanitari, perché quando cala il sole non possono più lavorare per via dell’assenza di elettricità. L’unica differenza è che le persone possono entrare e uscire liberamente, mentre nel campo di Moria gli spostamenti erano stati vietati per limitare la diffusione del Coronavirus.
Ma allora come adesso, l’aspirazione di tutti resta quella di lasciare l’isola. “Le persone chiedono di poter lasciare il campo e continuare il proprio percorso di richiesta di asilo in un sistema dignitoso che non li umili. Nessuno con un minimo di amor proprio chiederebbe di vivere in queste condizioni. Continuo tutti i giorni a vedere i volti delle persone che non sanno cosa le aspetta, donne anziane su sedie a rotelle cercare d’infilarsi in una struttura creata con bottiglie d’acqua per lavarsi”, conclude Marco con la voce spezzata. Tra due settimane terminerà la sua missione con Msf a Lesbo, e lascerà l’isola attraversato da un senso di amarezza. “Vado via con l’angoscia di sapere che il sistema europeo ha come risultato delle proprie politiche l’umiliazione totale di persone che fuggono da contesti di guerra e persecuzione, con un impatto devastante sui minori. È questa la mano tesa che l’Europa offre loro: così sta creando una generazione di zombie”.
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