Non è la prima volta dall’inizio della guerra in Ucraina che si parla della Transnistria, la piccola repubblica autoproclamata filorussa che controlla la zona oltre il fiume Dniestr, che a livello di diritto internazionale sarebbe parte della Moldavia ma dal 1991 è di fatto indipendente. L’ultimo di questi episodi si è verificato lo scorso 28 febbraio, quando il governo della Transnistria ha formalmente chiesto sostegno alla Russia contro quelle che il governo separatista di Tiraspol definisce crescenti pressioni da parte della Moldavia. Una richiesta cui Vladimir Putin al momento non ha dato risposta, mentre dal ministero degli Esteri russo è arrivata una generica affermazione secondo cui la difesa degli abitanti della Transnistria, definiti “compatrioti”, è prioritaria, senza annunciare misure specifiche.
Allo stato attuale è molto difficile immaginare che Mosca sia disposta ad attivare il suo contingente di circa mille uomini presente in Transnistria e tanto meno che invii rinforzi nella piccola repubblica, che non si affaccia sul mare e confina esclusivamente con Moldavia e Ucraina: per un aviotrasporto di militari sarebbe necessario sorvolare o il territorio ucraino o quello rumeno. Dunque, o di un Paese con cui Mosca è in guerra o di un Paese membro della NATO. Tuttavia, anche in assenza di un intervento militare diretto, la questione della Transnistria può rappresentare per la Russia un modo per esercitare pressioni sulla Moldavia, un Paese molto piccolo che non fa parte né della NATO né dell’Unione europea ma che sta sempre di più guardando a occidente e che, anche per questo, dall’inizio della guerra in Ucraina si sente particolarmente minacciato.
I timori di Chisinau
La questione della Transnistria è iniziata nel 1991 con l’autoproclamazione di una repubblica in questo piccolo territorio a est del fiume Dniestr abitato al 29 per cento da cittadini che si identificano come russi. Da quel momento ha rappresentato un elemento di destabilizzazione nella piccola repubblica di Moldavia, che anche per questo è sempre rimasta fuori sia dall’Unione europea che NATO. Con l’inizio della guerra in Ucraina il 24 febbraio 2022 molti osservatori hanno guardato con molta attenzione alla situazione, temendo un possibile coinvolgimento dei separatisti nel conflitto appena iniziato. Ad avvalorare questa ipotesi, le immagini del presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko di fronte ai vertici militari del suo Paese, usato come base dai russi nelle prime fasi dell’invasione dell’Ucraina, mentre mostrava una mappa in cui illustrava la strategia delle truppe di Mosca. In quella mappa, una freccia che dalla Transnistria muoveva verso il territorio ucraino lasciava intendere un coinvolgimento nel conflitto del contingente russo o delle stesse forze separatiste. Tuttavia, dando per buona questa interpretazione di quella mappa, c’è da immaginare che per attivare il piccolo e isolato contingente presente nella repubblica separatista, le truppe russe si sarebbero dovute avvicinare molto alla regione e magari coinvolgerli in un eventuale assalto a Odessa. Come sappiamo, allo stato attuale del conflitto le truppe russe non si sono mai avvicinate così tanto all’importante porto sul mar Nero.
Se gli ucraini non hanno mai abbandonato la paura che la Transnistria e il contingente russo che la protegge si possano attivare entrando in suolo ucraino e magari in direzione della vicina Odessa, la repubblica secessionista, così come la Moldavia, sono stati spesso affacciati sullo sfondo della guerra in Ucraina. Il timore di Chisinau è proprio che Mosca usi gli strumenti in suo possesso per destabilizzare la piccola repubblica in cui, tolto il territorio transnistriano, abitano meno di tre milioni di abitanti.
Dopo aver dovuto affrontare un flusso di profughi elevatissimo per un Paese così piccolo dopo l’inizio della guerra in Ucraina, la Moldavia ha iniziato una stretta contro le potenziali influenze russe, proibendo per prima cosa i simboli V e Z, gli stessi comparsi sui carri armati di Mosca intenti a entrare in Ucraina, e ha fronteggiato una serie di episodi come l’attacco del gruppo hacker russo Killnet ai siti di alcune istituzioni, la caduta nel proprio territorio di alcuni missili lanciati dai russi verso l’Ucraina e una serie di esplosioni in Transnistria, rimaste senza responsabile e che agli occhi di molti osservatori potevano rappresentare una false flag o comunque un episodio volto a destabilizzare la precaria regione. E soprattutto, la forte riduzione da parte della Russia e dalle sue aziende all’esportazione di gas e di numerosi prodotti verso la Moldavia, Paese che non gode di particolari risorse naturali ed è stata finora strettamente legata a Mosca per l’approvvigionamento energetico. Un fatto che ha avuto conseguenze sulla vita dei moldavi ed è sfociato in una serie di proteste.
Non è un caso che come quando dalle nostre parti nei momenti di crisi economica viene chiamato un economista a guidare un governo tecnico, dopo le dimissioni della Prima ministra Natalia Gavrilita, a guidare l’esecutivo sia stato chiamato un ex ministro degli Interni e consigliere per la sicurezza nazionale come Dorin Recean, a testimonianza di come a Chisinau si tema molto una destabilizzazione per mano di Mosca. E proprio nel corso del 2023, il governo moldavo si è trovato a prendere decisioni particolarmente dure, che hanno contribuito a rendere ancora più teso il rapporto con Mosca, soprattutto in vista delle elezioni dello scorso novembre. A giugno, infatti, la Corte costituzionale ha dichiarato illegale il partito politico Sor, legato al discusso uomo d’affari Ilan Sor, da tempo lontano dal Paese ma nonostante questo animatore di grandi manifestazioni antigovernative. La Corte ha motivato la sua decisione attraverso i finanziamenti illegali ottenuti dal partito e l’organizzazione di proteste ritenute come finalizzate alla destabilizzazione della Moldavia. Anche il partito nato dalle sue ceneri, Sansa, ha avuto una sorte simile ed è stato estromesso alla vigilia del voto locale di novembre. Sempre nello stesso periodo, il governo di Chisinau ha oscurato oltre 20 siti internet legati a media russi che accusandoli di essere parte di una guerra mediatica volta a destabilizzare l’ex repubblica sovietica. Decisioni duramente criticate dalla Russia, con la portavoce del ministero degli Esteri Maria Zakharova che ha attaccato il governo moldavo, soprattutto per l’esclusione del partito dalle elezioni, accusandolo di aver violato la Costituzione circa il pluralismo politico nel Paese.
Ondata di proteste
La figura di Ilan Sor e il suo partito politico hanno giocato un ruolo importante nei due anni di proteste che hanno attraversato la Moldavia. Nato in Israele da una famiglia di ebrei moldavi, tornato ancora bambino a Chisinau negli anni in cui l’Unione Sovietica iniziava la sua disgregazione, è diventato un importante uomo d’affari ma è stato anche coinvolto in numerosi scandali, ha inoltre fondato il partito filorusso Sor, che prende il suo nome e nel 2023 è stato dichiarato illegale dalla corte costituzionale, e dal 2019 vive in Israele, mentre tra il 2022 e il 2023 è stato colpito da sanzioni di Stati Uniti, Regno Unito e Unione europea per il suo rapporto con Mosca.
Sor è ritenuto uno dei massimi animatori delle proteste iniziate nel 2022, quando la piccola repubblica di Moldavia è stata attraversata dalla peggiore crisi energetica della sua storia iniziata dopo che Gazprom ha ridotto le forniture di gas verso il Paese e dal conseguente aumento dell’inflazione. E con una situazione di spaccatura sempre più evidente tra un governo che guardava sempre più a NATO e Unione europea e un movimento di protesta che guardava sempre più alla Russia, il Paese sembrava indebolirsi sempre di più rischiando di esporsi a un numero crescente di problemi ed elementi di instabilità in un quadro di generale insicurezza dovuto anche alla guerra in Ucraina. Per quanto col tempo l’ondata di proteste si sia affievolita, complice anche il contestato intervento della corte costituzionale verso il partito di Sor, esse continuano a svolgersi con intensità minore e continua soprattutto un’attività di propaganda via web a sostegno dei partiti filo-russi e contro il governo filo-occidentale e la presidente Maia Sandu. Un’attività che secondo Chisinau sarebbe sostenuta direttamente da Mosca nell’ambito di una guerra di informazione che, come detto, ha portato il governo moldavo a decidere di oscurare alcuni siti legati al mondo russo.
Mentre il Paese è a serio rischio di vedere un approfondimento delle proprie fratture in un contesto geografico e politico estremamente delicato, l’Unione europea ha assecondato la politica del governo di Chisinau che guarda sempre più a ovest e che proprio dall’Occidente si aspetta protezione e sostegno. Lo scorso dicembre, dopo anni di prudenza dovuti anche alla questione della Transnistria, l’Unione europea nel dare l’inizio ai negoziati per l’adesione dell’Ucraina ha avviato lo stesso processo anche per la Moldavia. Non saranno ovviamente negoziati semplici, in particolare quelli con Kiev, e la mossa è sembrata più un segnale alla Russia sulla volontà di integrare in futuro i due Paesi nel contesto occidentale. Una delle tante mosse in uno scontro che non riguarda soltanto l’Ucraina.
Non scordiamoci della Gagauzia
Poco prima che il partito Sor venisse messo fuori legge, nel maggio del 2023 era riuscito a vincere le elezioni locali in un’altra zona autonoma della Moldavia, la Gagauzia. Questa piccola area nel sud del Paese è abitata da una popolazione di origine turca e di religione cristiana ortodossa che vive nell’area probabilmente da prima che divenisse uno dei territori di confine dell’Impero Ottomano. Evghenia Gutsul, la presidente di questa regione autonoma, una volta eletta ha subito riallacciato i rapporti con Mosca, tenendo sempre un canale caldo anche con la Turchia per via dell’origine della popolazione che la rende un interlocutore naturale.
Ma questi punti di vista differenti rispetto al governo di Chisinau turbano non poco il governo moldavo già alle prese con altri problemi di stabilità, e temono che la situazione possa nel tempo trasformarsi in una seconda Transnistria che minerebbe ulteriormente le istituzioni del piccolo Paese.
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