L’ultima volta che ho incontrato Kimo mi aveva colpito per i modi gentili e soprattutto per la calma e la lucidità con cui parlava del lungo viaggio che l’aveva portato a piedi dal suo villaggio in Darfur fino a Tel Aviv.
Una calma che non ci si aspetta da un ragazzo di 26 anni, incarcerato da mesi senza alcuna apparente ragione se non per essere un rifugiato politico.
Fino a qualche mese fa, infatti, Kimo era un numero, solo uno dei 2.500 richiedenti asilo sudanesi o eritrei finiti nel carcere di Holot in attesa che la loro domanda d’asilo fosse accettata o, come accade di solito, respinta.
In Israele i richiedenti asilo hanno diritto solo a una protezione “temporanea”: il Paese è firmatario della Convenzione sulla protezione dei rifugiati del 1951, dunque non può deportarli.
Ma nel 2012 il governo Netanyahu ha approvato la legge anti-infiltrazione, che prevedeva che i richiedenti asilo arrivati illegalmente in Israele venissero imprigionati.
Questa legge, dichiarata incostituzionale dalla Corte internazionale di giustizia, è stata modificata e rivista varie volte, ma ancora adesso è il motivo principale per cui i richiedenti asilo vengono incarcerati senza possibilità di scampo.
Oggi Kimo è un uomo libero, ma non del tutto. Ad agosto è uscito dal carcere, ma non perché avesse ottenuto finalmente lo status di rifugiato. In effetti è uscito senza ricevere documenti, col passaporto scaduto e senza il permesso di lavorare legalmente o di avere un’assicurazione sanitaria nel Paese. Non può nemmeno entrare nelle città di Tel Aviv e di Eilat.
Kimo è stato liberato con altri 1.200 richiedenti asilo quando l’Alta corte di giustizia israeliana ha dichiarato che i prigionieri di Holot non potevano rimanerci per oltre un anno. E lui era lì già da 17 mesi. La Corte ha liberato i rifugiati, ma nessuno si è preoccupato di dove sarebbero finiti una volta fuori dal carcere, senza poter né lavorare, né ricevere cure.
“Appena sono uscito, per prima cosa ho cercato un posto dove sistemarmi”, mi ha spiegato. “Dopo tutto quel tempo passato in un carcere in mezzo al deserto, non volevo riprendere subito in mano la mia vita”.
“Avevo degli amici a Ramat Gan – una cittadina vicino Tel Aviv -, che conoscevo dai tempi in cui lavoravo a Tel Aviv. Appena hanno saputo che ero libero si sono offerti di ospitarmi. Sono stato fortunato, tantissime persone mi hanno aiutato”.
Non si può dire lo stesso di molti altri richiedenti asilo usciti da Holot. Tra loro c’è chi di Israele aveva visto quasi solo quella prigione e si è trovato catapultato in una realtà sconosciuta, senza avere praticamente nessun diritto.
Molti di loro sono stati e sono tuttora ospitati da famiglie israeliane, dato che è partita una gara di solidarietà, ma altri si sono ritrovati completamente soli.
“Grazie ai miei amici, ho trovato quasi subito lavoro in un fast food proprio vicino a casa mia. Penso che anche gli altri come me abbiano fatto lo stesso, fanno i lavori che gli israeliani non vogliono fare. Ovviamente tutti in nero”.
E chi non ha trovato niente? Una domanda poco rilevante per il governo Netanyahu, che non sembra avere né la volontà, né la capacità di intraprendere una politica d’integrazione per i richiedenti asilo, preferendo relegare la questione a un mero problema di ordine pubblico: i rifugiati sarebbero solo “infiltrati”, nonché dei “potenziali terroristi”.
Così, da agosto, 1.200 giovani uomini vagano senza meta in un Paese che, nonostante le denunce delle ong locali e i gesti di solidarietà di gran parte della società civile, non li vuole accogliere.
“Non credo che farò un’altra richiesta d’asilo” mi ha detto Kimo “A che serve? Mi hanno già ignorato una volta. Probabilmente alla fine tornerò a casa, o almeno in Africa”.
Negli ultimi due anni, il governo Netanyahu si è visto dichiarare incostituzionali dalla Corte internazionale di giustizia tutte le sue leggi anti-infiltrazione.
Forse per questo è arrivato a fare una proposta molto fantasiosa: offrire 3.500 dollari ai richiedenti asilo in Israele, a patto che scegliessero di prendere un biglietto di sola andata per il proprio Paese d’origine o per qualsiasi Paese africano.
Quasi allettante, dopo mesi e mesi di prigione. Se non che a metà aprile l’Isis ha diffuso il video dell’esecuzione di 30 migranti sulle coste libiche: tra questi, i rifugiati di Holot hanno riconosciuto un loro compagno di prigione eritreo, che aveva da poco lasciato “volontariamente” Israele.
Si chiamava Tesfay Kidane e stava cercando di raggiungere l’Europa dopo aver accettato i soldi dal governo Netanyahu. Aveva 30 anni.
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