Abdulahdi Ibrahim Lahweej, ministro Esteri Haftar, parla a TPI del memorandum Italia Libia
A sette mesi dall’inizio del conflitto in Libia, dove il 4 aprile scorso le forze del generale Khalifa Haftar hanno avviato l’offensiva contro le milizie di Fayez al-Sarraj, il ministro degli Esteri e della Cooperazione internazionale del governo di Haftar, Abdulahdi Ibrahim Lahweej, ha descritto a TPI l’attuale situazione nel Paese a margine di una conferenza stampa.
Per il ministro l’incontrollato flusso di migranti che dalla Libia cerca di raggiungere l’Europa è la diretta conseguenza del fatto che le coste di Tripoli sono governate da al-Serraj, che lascia le imbarcazioni in balia delle milizie e del traffico di esseri umani.
A TPI Lahweel spiega che, invece, nelle zone del Paese controllate dalle forze del generale Khalifa Haftar e da un governo “riconosciuto dal popolo e dalla patria”, l’immigrazione non è un problema: i migranti non partono dalle coste di Bengasi, ma da quelle di Tripoli.
“Dal 90 per cento di territorio in cui ci estendiamo non è mai partito nessun barcone, perché esiste un governo responsabile, con un Parlamento e una forza armata che proteggere le coste. Viviamo in una situazione stabile e sicura, dove c’è lavoro”, afferma il ministro della Cirenaica.
Per questo, secondo lui, chi vuole intervenire nella gestione dei flussi non dovrebbe stringere accordi con al-Sarraj, e firmare il memorandum con la Libia è stato per l’Italia un errore.
“L’immigrazione è per noi una questione molto importante”, dichiara Lahweej. “Anche noi controlliamo la Libia, ma non esiste nessun problema di migranti sulle nostre coste. Sono le spiagge controllate dal governo di Tripoli, riconosciuto dall’Onu, quelle da cui arrivano i migranti in Italia. Il perché non lo sappiamo. La risposta deve essere vostra, deve essere l’Italia a decidere come risolvere il problema. Le milizie che vendono gli essere umani e controllano il traffico sono quelle del governo di al-Serraj”, continua.
E spiega che l’obiettivo dell’offensiva lanciata ad aprile è quello di riportare l’ordine e lo stato di diritto all’interno del Paese, togliere armi e potere alle milizie e controllare il terrorismo e l’immigrazione.
“La Libia è in crisi, è una casa che sta bruciando, e se continua, l‘incendio si estenderà all’Italia e al mondo. La soluzione è spegnerlo e non aggiungere benzina, ma dobbiamo capire perché brucia”, aggiunge il ministro. “E brucia per la mancanza di sicurezza, ovvero la mancanza di governo nella capitale, Tripoli, dove c’è una situazione di terrorismo e di immigrazione incontrollata”.
Il 20 per cento della popolazione in Libia risiede nella capitale, con oltre un milione di abitanti, a cui si aggiungono i migliaia di migranti che lavorano illegalmente nell’area. È sempre qui che si concentrano i centri di detenzione in cui si commettono le violenze più efferate nei confronti dei detenuti stranieri. Si tratta di circa 17 dei 34 centri dell’intero Paese, controllati per la maggior parte da milizie, Katiba, che hanno iniziato a gestire la presenza dei migranti in Libia in modo informale dopo la caduta di Gheddafi e sono stati poi inglobati nel corpo amministrativo del governo. Ma quest’ultimo non ha alcun controllo su di loro.
Per questo, per Lahweel, la controparte libica che ha firmato il memorandum con l’Italia “non è capace di realizzare l’accordo”, firmato a febbraio 2017 con lo scopo di limitare l’arrivo di migranti sulle nostre coste anche attraverso il finanziamento della Guardia costiera di Tripoli da parte del governo italiano. Ma di questo corpo militare fanno parte gli stessi trafficanti che sfruttano i migranti dei centri, gestiscono le loro partenze verso l’Europa e, quando intercettano le imbarcazioni in mare, riportano le persone nelle prigioni da cui sono fuggiti, in un lucroso traffico che fa guadagnare ai capi tribù milioni di euro.
“La controparte libica dell’accordo [quella di al-Sarraj] è controllata da milizie, che vendono gli esseri umani e lucrano sul traffico di migranti. Il risultato è che l’immigrazione non si ferma mai. Perché la causa del problema [la presenza delle milizie] non può essere anche parte della soluzione”, afferma il ministro, e ribadisce che nella Libia orientale di Haftar la situazione è ben diversa da quella dell’area di Tripoli.
“Nelle parti che noi controlliamo c’è una situazione di rispetto per i diritti dei migranti. Nel centro che noi controlliamo c’è un policlinico, una biblioteca. Esistono posti per la preghiera di musulmani e di cristiani, tutti i migranti che si trovano lì hanno accesso alle cure mediche. E quelli che vogliono tornare nel proprio Paese, noi li facciamo tornare. Abbiamo fatto tornare indietro migliaia di persone. Noi rispettiamo i diritti umani e non accettiamo che il migrante venga offeso”, continua Lahweej.
Eppure nella notte tra il 2 e il 3 luglio 2019, circa 50 migranti hanno perso la vita nel bombardamento condotto dalle truppe di Haftar al centro di Tajoura, a sud di Tripoli. Ma per il ministro anche queste morti sono dipese dall’azione delle milizie armate.
“Purtroppo le milizie usano gli immigrati come protezione umana all’interno di questa guerra”, dice.
Ma i bombardamenti continuano a mietere vittime anche tra la popolazione migrante.
“I bombardamenti vanno avanti e le milizie continuano a usare queste persone come scudo per la guerra”.
E intanto, secondo un’inchiesta del New York Times, duecento mercenari russi sarebbero giunti in Libia nelle ultime settimane per combattere con la milizia dell’Esercito nazionale libico di Haftar.
La Russia starebbe intervenendo in modo diretto nella guerra – dopo quattro anni di supporto tecnico e finanziario – con l’introduzione di aerei militari, raid coordinati, missili e fuoco d’artiglieria di precisione, mercenari e cecchini.
Ma per Lahweej questa notizia sarebbe “assolutamente falsa”.
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