Ci sono storie e immagini di uomini, donne e bambini che fuggono dalle guerre, dalle violenze, dalla fame e dalla povertà, capaci di suscitare sentimenti di compassione, di indignazione, solidarietà o rabbia. Storie umane che bucano lo schermo della televisione, che catturano l’attenzione dell’opinione pubblica e conquistano un trafiletto su un qualche quotidiano. Poi ci sono le storie di uomini, donne e bambini sommerse e sconosciute, destinate a rimanere tali.
Nel 2015, la foto del bambino rifugiato siriano di tre anni, Aylan Kurdi, rinvenuto senza vita sulla spiaggia turca di Bodrum, è stata diffusa sulla rete e ha fatto il giro del mondo, provocando un senso d’impotenza e una grande commozione fra l’opinione pubblica.
Quell’immagine cruda, che ritrae un bambino di pochi anni senza vita e riverso su una spiaggia – che avrebbe dovuto rappresentare un punto d’arrivo per lui e la sua famiglia, ma che si è trasformata in una tomba a cielo aperto – era riuscita a puntare i riflettori sul destino di migliaia di altri bambini, donne e uomini costretti quotidianamente a fuggire da guerre, violenze e povertà.
Quel medesimo senso di impotenza e orrore provati guardando il corpo senza vita di Aylan si sono rivitalizzati a gennaio 2017, quando un’altra foto scattata a migliaia di chilometri di distanza e utile per documentare un contesto politico differente, ha fatto il giro della rete scatenando reazioni simili.
Lo scatto ritrae un bambino di appena 16 mesi, trovato senza vita sulle rive del fiume Naf, al confine fra il Bangladesh e la Birmania. La vittima era come Mohammed Shohayet, soprannominato “l’Aylan Kurdi birmano”.
Il bambino apparteneva alla minoranza religiosa dei rohingya e insieme alla sua famiglia aveva lasciato la propria abitazione, dopo che un gruppo di soldati birmani aveva aperto il fuoco contro gli abitanti del piccolo villaggio in cui viveva, situato nello stato di Rakhine.
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Le case erano state distrutte dalle fiamme e molti residenti erano stati uccisi. Tra le vittime anche i nonni di Mohammed, bruciati vivi, A raccontarlo è stato lo stesso Zafor Alam, il padre del bambino morto annegato.
Con sua moglie e i suoi figli, l’uomo aveva cercato una via di fuga attraversando il confine con il Bangladesh in compagnia di altre centinaia di disperati. “Quando ho visto quella foto, ho pensato che sarei dovuto morire io al suo posto”, ha raccontato Zafor Alam. “Non c’è più ragione di rimanere vivi in questo mondo”.
Un destino simile è toccato al piccolo migrante di sei anni di origine subsahariana, annegato nei giorni compresi tra il 13 e il 15 gennaio 2017 nelle acque di Cadice, in Spagna.
Il suo corpo in avanzato stato di decomposizione è stato rinvenuto in una spiaggia di Barbate, un comune autonomo dell’Andalusia. A trovare il suo cadavere è stato per caso un passante. La triste scoperta risale al 27 gennaio. Tuttavia, a darne immediatamente notizia è stata solo un’organizzazione spagnola locale impegnata nella difesa dei diritti umani in Andalusia, mentre le autorità locali hanno atteso qualche giorno prima di dedicare qualche riga all’ennesima tragedia del mare in uno stringato comunicato stampa.
A differenza del caso di Aylan e del bambino rohingya, la vicenda di queto bambino di origine è passata in sordina. Di lui non si conosce né la nazionalità né l’identità. Da alcune ipotesi che attendono di essere confermate e raccolte dall’associazione andalusa, il migrante sarebbe partito dal Congo insieme alla sua famiglia per sfuggire al pericolo di un imminente conflitto armato.
Si è ipotizzato che lui e i suoi familiari fossero saliti a bordo di una delle due imbarcazioni affondate nelle acque di Cadice il 13 gennaio. Quel giorno la guardia costiera spagnola con il supporto della Croce Rossa e l’ausilio di elicotteri, aveva recuperato sei cadaveri di cinque uomini di origine subsahariana e una donna di origine magrebina, fra la spiaggia di Tarifa che si trova nella località turistica di Bolonia e il porto di Algeciras.
Uno dei barconi affondati nello Stretto di Gibilterra sarebbe partito dalla zona di Capo Esparta, vicino Tangeri, in Marocco, secondo fonti della Ong per l’assistenza ai rifugiati Caminando frontiera.
“Non sappiamo quanti Aylan, quanti bambini, quanti uomini e donne si trovino in fondo al mare, senza che le famiglie sappiano nulla del destino dei loro cari. Ognuno di noi ha una vita e una storia che l’Europa non può negare”, si legge nel comunicato diffuso dall’organizzazione no-profit andalusa. “Non riusciamo a capite come l’alto rappresentante dell’Unione europea per la politica estera, Federica Mogherini, critica le politiche anti-immigratorie e nel contempo permette con le sue politiche che i bambini continuino a morire”.
Per il 31 gennaio l’associazione per i diritti umani andalusa ha convocato una manifestazione a Barbate per protestare contro il silenzio delle autorità locali e sensibilizzare sulla morte di un bambino migrante di origine sub-sahariana sulle spiagge spagnole.
Centinaia di migranti provenienti dall’Africa sub sahariana vivono illegalmente in Marocco e ogni anno provano a entrare a Ceuta e Melilla, le due enclavi spagnole nel nord Africa, nel tentativo di raggiungere l’Europa.
Gli arrivi dei migranti sulle coste meridionali della Spagna sono aumentati del 50 per cento nel 2016 rispetto all’anno precedente, secondo fonti del ministero dell’Interno spagnolo. Nel settembre del 2016, dei 21.222 tra migranti e rifugiati arrivati sulle coste del Mediterraneo, 1167 persone sono giunte su quelle spagnole, secondo i dati forniti dall’Unhcr.
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