Non hanno mai ucciso o ferito nessuno, non aderiscono a organizzazioni armate e non sono considerati violenti, eppure sono detenuti in carceri di massima sicurezza dove rischiano di passare il resto della vita. Seppur diverse, un filo sottile unisce le storie di Julian Assange, Osman Kavala e Alexei Navalny ed è il metodo adottato dalla leadership di Usa, Turchia e Russia per mettere il bavaglio a personaggi ritenuti scomodi. Assange ha passato gli ultimi dieci anni a sfuggire a un ordine di cattura emesso negli Usa, dove è ricercato per aver divulgato documenti secretati.
Da quando ha fondato WikiLeaks nel 2006, la sua piattaforma ha pubblicato oltre 400mila rapporti militari segreti relativi alla guerra in Iraq e più di 90mila sul conflitto in Afghanistan. Dopo aver passato quasi sette anni rifugiato nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, dal 2019 il 50enne australiano è detenuto nel carcere britannico di massima sicurezza di Belmarsh in attesa di essere estradato negli Usa, dove rischia fino a 175 anni di reclusione. Un trattamento che non fu riservato neanche a Pinochet, a cui Londra concesse i domiciliari.
Kavala è invece in prigione dal 2017. Accusato prima di aver fomentato le proteste di Gezi Park a Istanbul nel 2013, quando tentò una mediazione tra manifestanti e polizia, e poi di aver partecipato al tentato golpe militare del 2016, orchestrato secondo Ankara da un’organizzazione islamista di cui non ha mai fatto parte, lo scorso mese il filantropo turco è stato condannato all’ergastolo per eversione. Tutto questo nonostante una pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo che da tre anni ne chiede il rilascio dal carcere di massima sicurezza di Silivri, dove sono detenuti oppositori politici e terroristi. Anche Navalny è in prigione: sconterà una pena a 9 anni nel carcere di massima sicurezza di Melekhovo, dove sarà trasferito a seguito di una condanna per frode. Ma l’attivista era già detenuto da un anno e mezzo: era stato arrestato al ritorno in Russia dopo essere sopravvissuto a un tentativo di avvelenamento presumibilmente compiuto dai servizi di Mosca.
Ognuno è un caso a sé stante, ma le analogie sono inquietanti. Innanzitutto la sfida posta da questi uomini e dalle loro organizzazioni no profit ai tre diversi governi è di natura squisitamente culturale, prima che politica. L’opera di Assange e WikiLeaks ha lo scopo di diffondere documenti ufficiali secretati forniti all’organizzazione da fonti di cui si tutela l’anonimato. Tutto in nome del diritto dei cittadini a conoscere la verità. Al contempo la Fondazione per la lotta alla corruzione di Navalny, sciolta nel 2020, si proponeva di divulgare informazioni sulle malversazioni del governo russo a fronte della povertà diffusa nel Paese. La Anadolu Kültür fondata invece da Kavala mira a costruire ponti tra diversi gruppi etnici e religiosi della Turchia, sostenendo iniziative a favore della diversità culturale.
La reazione a questi propositi perseguiti con mezzi pacifici è stata a dir poco brutale. I tre sono detenuti in carceri di massima sicurezza a seguito di procedimenti penali in corso da anni. Alla persecuzione giudiziaria sono poi seguite vere campagne di delegittimazione. Il fondatore di WikiLeaks è stato tacciato di stupro, l’attivista russo di corruzione e il filantropo turco di legami criminali. Tutti sono stati accusati di spionaggio per conto di potenze straniere (la Russia nel caso di Assange; gli Usa per Navalny e Kavala). Non a caso Washington, Mosca e Ankara hanno usato i singoli processi per criticarsi a vicenda: se la Casa Bianca ha condannato l’incarcerazione degli oppositori in Russia e Turchia, dall’altra parte è stata sottolineata l’ipocrisia degli Usa sulla vicenda Assange. Come se la libertà di parola fosse questione di punti di vista.
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