Nell’aprile del 2016, Ahmadreza Djalali aveva deciso di recarsi nel suo paese natale, l’Iran, per far visita alla famiglia d’origine. Aveva colto quell’occasione anche per tenere alcune lezioni presso un’università di Teheran.
Da allora il medico e ricercatore non ha più potuto lasciare l’Iran e fare rientro in Europa. L’uomo aveva collaborato negli ultimi anni anche con il centro di ricerca di medicina dei disastri dell’Università del Piemonte Orientale.
Aveva lavorato anche con l’università belga Vrije Universiteit di Bruxelles (Vub). Ahmadreza è stato arrestato dalle autorità iraniane e attualmente si trova rinchiuso nel carcere di Evin, a nord della capitale iraniana Teheran.
Per i primi tre mesi di detenzione, il ricercatore iraniano è stato tenuto in condizioni di totale isolamento nella sezione 209, mentre nei quattro mesi successivi è stato tenuto in semi-isolamento ma gli era stato negato il diritto a essere difeso da un avvocato. Ora rischia la pena di morte.
Nel mese di dicembre del 2016, Ahmadreza ha iniziato uno sciopero della fame che ha aggravato seriamente le sue condizioni di salute. Quarantacinque anni, sposato e padre di due bambini, il medico e professore iraniano ha avuto solo il tempo di informare sua moglie che attualmente vive a Stoccolma con i figli rispettivamente di 5 e 13 anni, di essere stato obbligato a firmare una confessione forzata – dal contenuto ignoto – che lo ha esposto all’accusa di essere una spia e per questo condannato alla pena capitale.
Secondo le autorità iraniane, l’uomo avrebbe collaborato con stati considerati nemici da Teheran, come Israele e Arabia Saudita. La famiglia ha affermato con forza che non vi sia nessuna prova a carico di Ahmadreza.
Anche la comunità scientifica ha respinto le accuse rivolte contro di lui, ritenendo che la sua unica “colpa” possa essere quella di aver collaborato con ricercatori israeliani e sauditi nel corso della sua attività scientifica, volta a migliorare le capacità operative degli ospedali in paesi colpiti da disastri.
Ahmadreza si era trasferito, insieme alla sua famiglia in Svezia nel 2009 per ottenere un dottorato. Tra il 2012 e il 2015, la famiglia Djalali ha vissuto a Novara dove Ahmad era stato assegnato al centro di ricerca interdipartimentale in medicina dei disastri.
Il ricercatore iraniano non aveva mai tagliato i ponti con il suo paese d’origine, dove si recava ogni sei mesi per tenere dei seminari universitari. A invitarlo nel mese di aprile per un ciclo di conferenza era stata la medesima Università di Teheran. Da allora è scomparso.
Non è servito a nulla lo sciopero della fame di Ahmadreza Djalali. Tre giorni fa, secondo quanto raccontato dalla moglie, il giudice del tribunale della Rivoluzione, Abolghasem Salavati, ha confermato che il ricercatore sarà impiccato dopo il processo che si terrà fra un paio di settimane.
Unanime la condanna della comunità scientifica e accademica italiana e belga per la sorte del loro collega. Il rettore dell’università di Bruxelles, Caroline Pauwels, ha replicato che “uno scienziato esegue un’importante azione umanitaria e viene condannato senza processo pubblico e gli viene inflitta una condanna alla pena capitale. Si tratta di una violazione oltraggiosa dei diritti umani universali, contro la quale dobbiamo reagire con decisione”.
Il responsabile del gruppo di ricerca sull’emergenza medica e i disastri dell’università di Bruxelles, Ives Hubloue, ha detto che “Ahmadreza non è affatto interessato alla politica. Pertanto non crediamo abbia fatto nulla contro il governo iraniano”.
Cinque giorni fa, sul sito Change.org è stata lanciata una petizione per chiedere al governo iraniano e al presidente Hassan Rouhani clemenza per Djalali. Ad oggi, l’appello rivolto anche al segretario generale del Consiglio iraniano per i diritti umani, Mohammad Javad Larijani, al premier italiano Paolo Gentiloni, al ministro degli Esteri Angelino Alfano, al presidente del Parlamento europeo, Jean-Claude Juncker e al presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, ha raccolto oltre 160mila firme.
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