Come ogni genitore sa, avere troppe possibilità è una gran cosa. Ma quando sei una 39enne, neo sposata con un’altra donna e in cerca del perfetto donatore di sperma, quell’ampio ventaglio di opzioni ti costringe a considerare – e qualche volta a riconsiderare – il perché tu stia cercando di costruire una famiglia.
“Cavolo, è come fare shopping su Amazon”, mi ha detto una volta la mia madre biologica, nel bel mezzo della nostra agonizzante lotta alla ricerca di un donatore. I suoi piccoli occhi castani erano ridotti a due fessure mentre fissava lo schermo del computer di fronte a lei, visionando dozzine di logori profili di uomini, disponibili a diventare il padre biologico del bambino che io e mia moglie speravamo di crescere insieme.
“Quindi, ti basta cliccare sull’opzione occhi azzurri, capelli biondi, un metro e ottanta e una laurea, per creare il tuo bambino ideale? E tuo figlio non incontrerà mai questo tipo? ”, mi chiese mia madre.
Era una domanda ironica, ma legittima, posta da una donna che avevo incontrato pochissime volte, prima del mio diciannovesimo compleanno.
Il primo ricordo che ho di lei è di quella volta in cui ci incontrammo per un pranzo in centro, quando avevo circa tre anni; lei era corsa in città per presentarsi a un’udienza durante la quale intendeva opporsi alla richiesta di adozione presentata dalla mia matrigna.
Col passare degli anni, i miei occhi castani, le mie labbra piene e la mia voce rauca, assunsero sempre di più la forma e il suono di questa donna, che da piccola conoscevo a malapena, e che tuttora cerco di perdonare per aver allontanato se stessa e il mio unico fratello, durante la nostra infanzia.
La maggior parte dei ricordi che ho di lui li ho fabbricati io stessa, dalle lettere e dalle foto che mia madre mi inviava nel corso degli anni. Ho conservato quegli scatti ammuffiti in una scatola per sigari di legno.
C’è una sua foto da neonato, in cui ha un ampio sorriso luminoso, nonostante nell’immagine si stia sforzando di mettersi in piedi, sorreggendosi a un’orrenda gamba di un tavolo.
Ce n’è una in cui siamo io, lui e due cugini che conoscevo poco, rannicchiati nei sacchi a pelo fuori sul balcone di nostra nonna, nella sua casa in Arizona (anche lei, per me, era quasi un’estranea).
Nella foto, il mio braccio stringe forte mio fratello, nel tentativo di tenerlo il più possibile vicino a me durante le sue brevi, rare visite.
E poi c’è un’altra foto di lui a 15 anni, tutto gambe e capelli biondi arruffati, appoggiato a un pino che doveva essere stato piantato vicino la sua casa in Colorado.
Un sorriso asimmetrico riempiva le sue labbra; indossava la maglietta della squadra di nuoto.
A pochi mesi da quella foto, il mio mitico fratello maggiore, sarebbe andato perduto per sempre.
Un uomo ubriaco a bordo del suo pickup aveva preso in pieno l’auto di mio fratello, uno scontro che ha distrutto i suoi arti, strappato le vene nel suo cervello e fatto precipitare il lobo frontale ai lati del cranio.
È rimasto in coma per 37 giorni, mentre il cervello faticava a riprendersi. Non mi è mai stato permesso di andarlo a trovare in ospedale, un’altra che non ho mai dimenticato.
Quando l’ho visto due anni dopo, zoppicava, aveva difficoltà a discernere il bene dal male, e non avrebbe più potuto comprendere o occuparsi dei compiti riservati agli adulti.
L’adolescente biondo, ambizioso, che una volta pensava di diventare giornalista o dottore (come il suo padre adottivo), avrebbe finito per lavorare part-time come crossing guard, e come volontario a full-time in gruppo di supporto per soggetti che hanno subito traumi al cranio, a volte ricorrendo anche a droghe illecite per riempire il tempo e sentirsi di nuovo vivo.
Ma un giorno di Natale, quando ormai era adulto e io gli avevo confessato di essere lesbica, mi prese da parte e mi offrì il più grande regalo che avessi mai potuto immaginare.
“Stavo pensando”, mi sussurrò. “So che non puoi avere esattamente dei figli tuoi con un’altra donna. E io probabilmente non ne avrò mai di miei. Quindi forse potrei aiutare voi due ragazze, un giorno. Se volete”.
La sua offerta mi ha spinto per diversi anni a cercare di rispondere alla più esistenziale delle questioni. A un certo punto della mia vita, non ero nemmeno sicura di volere dei bambini, nel timore di perpetuare il ciclo dell’abbandono che aveva colpito la mia famiglia.
Come me, la madre di mia madre l’aveva abbandonata tenendo con sé solamente il figlio maschio. E mio padre aveva lasciato definitivamente me e i figli nati dal matrimonio con la mia matrigna, dopo che avevano deciso di divorziare.
Se avessi deciso di non avere figli, non avrei mai dovuto fare i conti con le mie mancanze come genitore. Oppure io e mia moglie avremmo potuto scegliere un donatore anonimo, che ci avrebbe permesso di crescere un figlio senza sentire alcun obbligo verso la mia famiglia di origine.
Oppure avrei potuto accettare il regalo di mio fratello – e donargliene due in cambio.
Due anni dopo l’inizio della caccia al “perfetto” donatore di sperma, mia moglie ha dato alla luce il nostro primo figlio, un bimbo che ha gli stessi capelli biondo paglierino di mio fratello e gli occhi blu cristallo di mia moglie.
La moglie di mio fratello mi ha mandato messaggi durante tutte e diciotto le ore di travaglio, chiedendo aggiornamenti e foto, e dandomi in cambio tutto il suo conforto.
Oggi, il nostro amato primogenito di due anni, adora mettersi sulle punte dei suoi piccoli piedi e afferrare quella scatola per sigari, posarla sul pavimento e osservare le vecchie foto. Strilla deliziato ogni volta che riconosce il suo “zio speciale”. Spesso, confonde l’immagine di mio fratello con la sua.
Subito dopo la sua nascita, mia moglie mi ha incoraggiata a scegliere un donatore anonimo affinché provassi anch’io la gioia della gravidanza, prima che fosse troppo tardi. Tuttavia, mi sembrava ingiusto creare deliberatamente un figlio che avrebbe avuto, come ricordo di suo padre, solo una o due foto.
Invece, ho chiesto a lei di mettere a disposizione i suoi ovuli da impiantare nel mio utero, così da dare a nostro figlio quel fratello di cui ho sempre sentito la mancanza.
Lo scorso dicembre, a quattro anni dall’inizio della grande ricerca del donatore, ho dato alla luce un bambino che è biologicamente mio nipote, ma il cui amore supera qualsiasi cosa abbia mai desiderato in vita mia.
Avrei mai potuto scegliere una conclusione simile in un catalogo? Probabilmente no. Ma questi ultimi quattro anni mi hanno insegnato che sono le nostre imperfezioni condivise, i nostri errori e le nostre sfide a renderci pienamente umani. Questa è la nostra vera eredità, ciò che ci lega come famiglia in questo mondo.
L’articolo è stato pubblicato originariamente qui. Traduzione a cura di Jessica Cimino
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