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    Cos’è il fondamentalismo islamico

    Intervista con Massimo Campanini, che ci racconta cos'è, come è nato e come si sta trasformando il fondamentalismo islamico

    Di Andrea De Pascale
    Pubblicato il 22 Mar. 2016 alle 17:36 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 22:54

    Massimo Campanini è un esperto orientalista italiano, che si interessa particolarmente all’interpretazione del Corano e al pensiero politico islamico. Insegna Pensiero islamico e Storia dei paesi islamici all’Università degli studi di Trento e in passato ha insegnato Storia e istituzioni del mondo musulmano all’Università di Urbino. Il giornalista italiano Andrea De Pascale l’ha intervistato, in esclusiva per TPI, per cercare di capire come nasce e come si è sviluppato il fondamentalismo islamico.

    Cominciamo dalle origini. Quando e come nasce il fondamentalismo islamico?

    Dal punto di vista storico il fondamentalismo-radicalismo nasce come un’estremizzazione delle tendenze riformiste della nahda (in arabo rinascita) e dell’islah (riforma), cioè il rinascimento politico e intellettuale del mondo arabo-islamico tra Ottocento e Novecento.

    Le prime forme di fondamentalismo nacquero tra la metà degli anni Sessanta e gli anni Ottanta, dopo il crollo degli ideali laici e nazionalisti dell’epoca di Gamal Abdel Nasser, presidente dell’Egitto tra il 1956 e il 1970, eroe del socialismo e del nazionalismo arabo.

    Il riformismo nahda-islah aveva fatto fare molti passi in avanti al mondo musulmano e negli anni della decolonizzazione presidenti come Nasser si erano ispirati alle ideologie laiche europee. Ma quando l’applicazione di queste ultime nel mondo arabo è fallita, l’Islam ha rioccupato gli spazi ideologici e identitari. 

    Quand’è che il radicalismo conosce un salto di qualità?

    A partire dagli anni Novanta, quando l’estremismo ispirato a Sayyed Qutb si trasforma in vari casi (ad esempio al-Qaeda) in terrorismo. Qutb è considerato il padre del moderno fondamentalismo islamico. Tra  gli anni Cinquanta e Sessanta fu l’ideologo dei Fratelli Musulmani, organizzazione islamista diffusa soprattutto in Egitto e Palestina. Qutb aveva teorizzato la necessità di combattere i regimi oppressori e miscredenti. Fu impiccato nel 1966, accusato di voler compiere un colpo di stato.

    I perché di questa ulteriore radicalizzazione non sono tutti facilmente spiegabili: l’Occidente ha le sue colpe col neocolonialismo e le disgraziate guerre dei Bush, l’Arabia Saudita le sue nel finanziare i movimenti più reazionari, la crisi economica e la povertà esasperano le reazioni. Motivazioni comunque più politiche che religiose. E con gli attentati degli ultimi mesi il rischio di incorrere in una islamofobia diffusa è grande.

    Ci aiuti a comprendere meglio cosa sta accadendo. Cosa spinge gli estremisti islamici a compiere azioni di questo tipo?

    Il radicalismo è un’estremizzazione teorica e pratica che strumentalizza concetti religiosi per fini politici, e da verificare è se questa strumentalizzazione sia cosciente oppure spontanea, per così dire “onesta”.

    Gli obiettivi di organizzazioni come al-Qaeda e Isis sono anti-islamici, in primo luogo perché scatenano una guerra intestina tra i musulmani, una fitna, che è esplicitamente condannata dal Corano; in secondo luogo perché fanno del messaggio liberatorio e rivoluzionario del Corano il pretesto per una violenza cieca.

    L’opposizione tra amici e nemici è uno sviluppo salafita – ovvero di un movimento ultra-conservatore e favorevole alla guerra santa – all’interno dell’Islam sunnita, che il Corano non contempla. La stessa rivendicazione di al-Baghdadi di essere califfo non ha alcun fondamento nella tradizione del pensiero politico islamico.

    Cosa risponde, quindi, a quelli che accusano l’Islam di possedere un Dna violento?

    Cominciamo col dire che tutte le religioni, comprese quelle più ireniche come il buddhismo, hanno un nocciolo violento: per natura la religione professa di possedere la verità mentre gli altri sono in errore, è un’idea condivisa anche da buddhismo e induismo. Inoltre, i testi sacri dell’ebraismo non sono meno violenti del Corano, anzi lo sono forse ancor di più, ma le circostanze dell’applicazione storica dei princìpi sono state diverse.

    Il Corano ammette certo la liceità del combattimento, ma anche il Deuteronomio – quinto libro della Torah ebraica e della Bibbia cristiana – dice che, dopo aver conquistato una città, bisogna passarne a fil di spada gli abitanti: forse allora è proprio il monoteismo semitico tout court che è più violento degli altri credi.

    Infine, se il Corano è responsabile dell’Isis, allora anche il Vangelo lo è dei roghi di Giordano Bruno e Francesco Pucci o dello sterminio degli indiani d’America considerati come animali, così come Also sprach Zarathustra lo è del nazismo. Ma il Corano è anche potente testo di liberazione, cosa che la Bibbia ebraica non è. Il Vangelo lo è in parte, ma con molte ambiguità. Il problema di tutti i testi sacri è la loro interpretazione, e l’interpretazione è un fatto umano, troppo umano anche ammettendo l’origine divina della rivelazione.

    Secondo lei, cos’è che non sta funzionando nelle politiche adottate per la lotta al terrorismo?

    Credo fondamentalmente che l’atteggiamento dell’Occidente nei confronti dell’Isis sia troppo attendista e in certo senso passivo. Delegare, per esempio, ai curdi la resistenza in Siria e Iraq è strategia perdente: i curdi da soli non saranno mai in grado di sconfiggere l’Isis. L’Occidente, Stati Uniti in testa ma anche Francia e Gran Bretagna, è sempre stato pronto, anzi rapido a scatenare guerre e invasioni quando i suoi interessi erano minacciati.

    — Leggi anche: Cos’è diventato l’Isis a un anno dalla proclamazione del Califfato

    Perché questa volta non lo fa? Soprattutto se è vero che l’Isis rappresenta un pericolo mortale?

    I casi sono due: o l’Isis è meno pericoloso di quello che sembra e dunque non c’è fretta di combatterlo, o l’Isis, per così dire, “serve”, “ci fa comodo”. Dato che la prima ipotesi è da scartare, resta da chiedersi: cui prodest? A chi giova?

    Non amo le dietrologie, per cui dico: non lo so. Ma certo l’Isis è utile ad alimentare l’islamofobia, a consolidare l’immagine dell’altro-nemico, quell’Islam dipinto come violento e aggressivo per natura che nell’immaginario occidentale ha sostituito lo spettro del comunismo.

    Naturalmente, non è scelta facile organizzare una spedizione militare in Libia o in Siria, ma nel 2003 gli USA di George W. Bush ci hanno messo poche settimane a decidere di invadere e annientare l’Iraq di Saddam che, a quell’epoca, non costituiva più alcun pericolo e che dunque è stato combattuto senza motivo apparente.

    Tra gli obiettivi principali del Califfato c’è sicuramente la Tunisia, unico tra i paesi arabi ad aver visto trionfare le istanze della primavera araba. Quali sono le sfide che si trova a dover affrontare oggi la giovane democrazia del Maghreb?

    La destabilizzazione della Tunisia avrebbe un alto valore strategico e simbolico. Strategico perché consentirebbe di approfondire il buco nero libico, col pericolo di attrarvi e risucchiarvi l’Algeria e soprattutto l’Egitto, che a sua volta sta attraversando un periodo di grave instabilità. Simbolico perché l’Isis dimostrerebbe ai suoi simpatizzanti di essere davvero in grado di vincere.

    La Tunisia sta attraversando una transizione difficile di consolidamento democratico in cerca di equilibrio tra islamisti e laici. Una spallata come quella dell’Isis, che tra le altre cose annullerà per molto tempo il turismo, rischia di interrompere questa complicata transizione con ricadute al momento imprevedibili. Quanto successo lo scorso 27 giugno nella moschea di al-Imam al-Sadiq in Kuwait, invece, ci pone di fronte all’annosa questione che lega sciiti e sunniti.

    —Leggi anche: L’Isis ha attaccato una moschea sciita in Kuwait

    Da dove ha origine il loro conflitto?

    Sunniti e sciiti si sono guardati reciprocamente in cagnesco per secoli, accusandosi gli uni gli altri di essere eretici. Altrettanto, però, per secoli sunniti e sciiti sono convissuti pacificamente all’ombra degli imperi sovranazionali: dagli ottomani ai mughal nel subcontinente indiano. I conflitti aperti sono stati sporadici e in certo senso marginali, come quando i Wahhabiti sunniti nel diciottesimo secolo hanno saccheggiato i santuari sciiti in Iraq.

    Ma, ripeto, in genere per secoli la convivenza è stata pacifica. L’attuale esplodere di genocidi reciproci è il frutto ulteriore di una strumentalizzazione politica della religione. Non si può dire quando le cose cambieranno: probabilmente solo quando l’assetto della regione si sarà ristabilizzato e la religione non sarà più brandita come pretesto per giustificare la predominanza sciita in Iraq o la predominanza sunnita dell’Isis in Siria.

    Con gli attentati compiuti dagli uomini del Califfato aumenta la distanza tra Isis e al-Qaeda, che invitava prima di tutto alla jihad contro gli americani e i governi locali loro alleati.

    — Leggi anche: Chi sono sunniti e sciiti

    Cos’è cambiato rispetto al passato?

    Il terrorismo dell’Isis è diverso da quello di al-Qaeda, in parte perché colpisce in modo più indiscriminato e crudele, facendo delle uccisioni e delle decapitazioni uno strumento di comunicazione mediatica che al-Qaeda non utilizzava.

    Ma soprattutto perché sembra avere fini diversi. Da un lato, l’Isis rivendica in modo più esplicito e mirato l’idea di califfato: anche al-Qaeda certo aspirava all’instaurazione dello stato islamico ma l’Isis è più preciso nel dire che questo stato islamico è proprio il califfato, cioè il sistema politico perfetto dell’epoca dei successori del Profeta. Tutto questo ha un alto valore simbolico e potenzialmente mobilitante.

    D’altro lato, mentre al-Qaeda preferiva colpire prima il nemico lontano, cioè l’Occidente, e solo poi il nemico vicino, cioè i regimi falsamente musulmani (secondo il suo punto di vista) dei Paesi arabi, l’Isis rovescia la prospettiva: si tratta prima di consolidarsi e radicarsi in Medio Oriente – in Siria, in Libia, in Yemen e potenzialmente in quei Paesi attaccabili dal virus jihadista, come la Tunisia – e poi da questo trampolino di lancio proiettarsi verso l’Europa.

    Per concludere, quale ruolo, secondo lei, dovrebbero assumere gli altri musulmani nel mondo?

    I musulmani nella stragrande maggioranza non sono favorevoli al terrorismo, vogliono la pace esattamente come tutti. L’importante è credergli e smetterla – come fanno invece la stragrande parte dei mass-media – di indicarli come mentitori e parlanti con lingua biforcuta, convinti che l’Islam sia per natura violento e assassino. 

    Intervista a cura di Andrea De Pascale.

    Alcuni incisi sono stati aggiunti all’intervista originale dalla redazione di TPI per contestualizzare o chiarire alcuni concetti.

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