Stanno già salendo tutti sul carro del vincitore; anzi sono già saliti; anzi erano già su prima che partisse. Anzi sono stati loro a metterlo ‘en marche’, o ‘in cammino’ anche se le iniziali di nome e cognome non reggono il gioco di parole. In Francia? Ma no, in Italia: dal centro, da sinistra, da destra, molti si annettono la vittoria di Emmanuel Macron. Matteo Renzi s’è persino già dimenticato che il francese con lui nella foto dei leader in camicia bianca non era Macron, ma Manuel Valls, premier di François Hollande, che, perse le primarie socialiste, s’è poi schierato con Macron.
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La ressa italiana intorno al vincitore francese, con il pullulare dei cloni, non stupisce. Anche se, in chiave europea, può essere foriera di notevoli imbarazzi: se Macron iscriverà il suo nuovo partito al partito liberale europeo (Alde) e non a quello socialista (Pse), dove c’è il Pd, né tanto meno a quello popolare (Ppe), dove s’addensa la galassia centrista italiana, Forza Italia e tutta l’ex Democrazie cristiana, il tentativo di sovrapposizione diventerà ancora più artificioso – o comporterà scelte drastiche.
Ma, sinceramente, perché annegare nelle beghe italiche la speranza e quasi l’entusiasmo suscitati dalla lunga camminata del “presidente Macron” nel cortile del Louvre, scortato verso il palco del discorso della vittoria, dall’Inno alla Gioia, l’Inno dell’Europa. Prima l’Unione, poi la Francia, con la Marsigliese a chiusura dell’evento: non me l’aspettavo e – lo ammetto – mi sono emozionato.
Nonostante abbia delle diffidenze su una linea politica (troppo?) liberista e tecnocratica, vivo l’elezione di Macron alla presidenza della Repubblica francese come una speranza. Ieri sera il cortile del Louvre, carico di significati storici e culturali, m’ha ricordato il parco, molto meno ricco di riferimenti, di Chicago la notte del 4 novembre 2008, dopo l’elezione di Obama: quella una speranza globale, questa una speranza europea.
Un disagio diffuso in attesa di risposte
Certo, al di là dell’emozione e della retorica, c’è una Francia divisa, una Francia che esprime il disagio votando Marine Le Pen, o astenendosi, o attuando scaramucce urbane in qualche strada di Parigi. Ma c’è anche una Francia che sceglie il presidente più giovane della Quinta Repubblica; che boccia i partiti tradizionali senza rinnegare l’Europa e la democrazia; che si rinnova senza stravolgersi.
La buona notizia è che Macron ha vinto e che ha vinto in modo molto più netto del 60 a 40 generalmente pronosticatogli: oltre il 66 per cento contro meno del 34 per cento, due a uno. La Le Pen s’è affermata in solo due dipartimenti, il Pas-de-Calais e l’Aisne – il che anticipa le difficoltà del FN nelle politiche di giugno – e a Parigi ha di poco superato il 10 per cento.
La cattiva notizia è che la Le Pen ha perso, ma ha preso un terzo dei voti, quasi il doppio percentualmente del 18 per cento scarso che suo padre Jean-Marie ebbe al ballottaggio nel 2002: 11 milioni di suffragi, un record assoluto per il FN. Inoltre, circa un quarto dei francesi non sono andati alle urne, seguendo le indicazioni anti-europee ed anti-sistema della sinistra “insoumise” di Jean-Luc Mélenchon. L’area del dissenso e dell’insoddisfazione è, cioè, molto vasta e resta in attesa di risposte.
Il presidente c’è, la maggioranza cercasi
Resta da vedere con chi governerà Macron, presidente senza né partito né maggioranza, a un mese dalle elezioni legislative dell’11 e 18 giugno: al voto, potrà certamente contare sull’effetto entusiasmo per la vittoria riportata, ma si profila comunque, per la prima volta nella Quinta Repubblica, l’ipotesi di una maggioranza di coalizione piuttosto che di una coabitazione, esperienza già vissuta a due riprese: presidente d’un colore e governo d’un altro. Ma coalizione con chi? Quel che resterà dei socialisti? I repubblicani? Entrambi?
Dai discorsi a caldo del vincitore e della sconfitta, c’è da apprezzare la buona educazione istituzionale mostrata sia dalla Le Pen, che annuncia una nuova versione, meno urticante, del suo partito, sia da Macron, che propone l’immagine dell’unificatore.
L’obiettivo della Le Pen è un partito capace di contare nell’Assemblea nazionale, dove finora ha sempre avuto un ruolo marginale. La responsabilità che Macron si assume è ascoltare i più deboli e lottare contro tutte le forme di discriminazione ed emarginazione.
C’è un po’ di tutto, nel discorso al Louvre come nei buoni propositi d’inizio presidenza: “una nuova pagina di speranza e di fiducia”, l’omaggio alla storia della Francia dall’Ancien Régime alla Rivoluzione, da Napoleone alla Repubblica al suo predecessore, l’appello all’unità, persino una strizzata d’occhio a patrioti e nazionalisti – la prima missione sarà una visita alle truppe francesi all’estero -, un forte appello all’Unione europea e all’amicizia franco-tedesca – dopo, andrà in Germania.
L’Ue ha un tris in mano e può fare poker
Con le elezioni francesi, l’Unione fa tris, infila un filotto: presidenziali in Austria a dicembre, politiche in Olanda a marzo, ora presidenziali in Francia, tre ostacoli della terribile “gabbia” superati di slancio. Restano, a settembre, le politiche in Germania, che, dal punto di vista della contestazione euro-scettica, fanno meno paura ai fautori dell’integrazione: il poker è sicuro. I risultati di ieri nello Schleswig-Holstein sono un viatico per la cancelliera Merkel e il suo partito, ma se anche vincessero i socialdemocratici di Martin Schulz il messaggio sarebbe sempre pro-europeo.
L’onda lunga della marea euroscettica pare superata, anche se in Francia resta alta, molto alta. La risposta a populismi, xenofobie, paure è più Europa, ma non più di questa Europa: un’Europa diversa, che faccia crescere insieme, accolga insieme, rassicuri insieme.
E le presidenziali francesi sono state, indipendentemente dal risultato, anche una vittoria sul terrorismo, che ha insanguinato la campagna e minacciato il voto, ma non ha distolto dalle proprie scelte i cittadini: chi non è andato alle urne non l’ha certo fatto perché spaventato dalle minacce del Califfo, ma perché non convinto dalle alternative propostegli.
L’ultimo vagone del treno europeo
Resta, all’Europa e a noi, il problema Italia: siamo il Paese dove la spinta euro-scettica, sia pure composita, da destra, da sinistra, dall’area M5S, è più forte e dove le politiche finora attuate per contrarla sono meno efficaci. E, dei grandi paesi Ue, Spagna, Francia, Regno Unito e Germania, siamo quello che andrà a votare per ultimo, senza ancora sapere neppure né quando né con che sistema.
Il rischio concreto è che i nostri partner comincino a lavorare insieme a una nuova Europa quando loro avranno tutti un assetto politico stabile almeno fino al 2020, mentre noi staremo ancora consumando tempo ed energie nella nostra faticosa e rissosa campagna, dove, tra l’altro, anche gli euro-tiepidi esibiscono toni molto critici sull’integrazione nell’illusione di togliere spazio agli euro-scettici.
Nonostante la buona volontà e l’impegno di chi ci crede per ruolo e/o per convinzione, arriveremo a sederci al tavolo europeo a cose fatte, o almeno avanzate. E con l’handicap d’una credibilità ulteriormente compromessa. Servirebbe disporre subito d’un Macron, invece d’un clone usato.
*Giampiero Gramaglia è giornalista e consigliere IAI. Il suo account Twitter è @ggramaglia
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