«Se l’estrema destra in cinque anni ha decuplicato i voti dobbiamo farci un serio esame di coscienza. È evidente che non siamo stati capaci di raccontare ai figli cos’era il Portogallo ai tempi di Salazar e Caetano». Alla vigilia del cinquantenario della “Rivoluzione dei garofani” (25 aprile) che mise fine alla dittatura, cresce fra le vecchie generazioni il rammarico di non aver saputo spiegare ai giovani il valore della libertà. I giornali rigurgitano di lettere grondanti perplessità.
«Ho invitato a cena mia figlia che ha votato Chega. Mi ha rinfacciato che questo non è più un Paese per giovani. Devono emigrare perché il costo della vita è troppo alto e il lavoro è troppo precario». «Ma lo sai, figlio mio, in che mani ti stai consegnando?», racconta il suo sfogo domestico un altro padre. «Lui mi ha risposto a brutto muso: se mi danno 800 euro al mese per dieci ore al giorno di lavoro, che ci mangio con la tua democrazia?».
Che tuttavia resta un baluardo. Perché contro l’ascesa di Chega, il partito iper-populista che si è arrampicato fino a oltre il 18 per cento e che con uno spregiudicato uso del web ha mietuto consensi nella Generazione Z, continua a reggere il cordone sanitario eretto dai partiti tradizionali che subentrarono al regime totalitario.
Moderato e senza carisma
André Ventura, leader di Chega, ex seminarista poi laureato in legge ed ex commentatore calcistico, per i toni ruvidi e il linguaggio sprezzante è una sintesi fra Donald Trump e Jair Bolsonaro. A causa dei precedenti incendiari (è giunto al punto di proporre l’asportazione delle ovaie per le donne decise a ricorrere all’aborto) non è stato neanche consultato nelle trattative per il governo di minoranza dal nuovo premier di centro-destra Luis Montenegro. Che durante la campagna elettorale proclamò fermamente: «Un no è un no» ai compagni di partito e agli alleati che gli suggerivano di turarsi il naso e blindarsi con l’appoggio dell’estrema destra pur impresentabile. E dopo le elezioni, pur non avendo numeri sufficienti in Parlamento, non ha mai preso in considerazione l’idea di aggregare al carro dell’esecutivo i parlamentari di Chega che gli avrebbero ampiamente garantito la maggioranza assoluta.
Il Portogallo naviga a vista sulle spalle apparentemente esili di un leader poco carismatico costretto a vivere alla giornata. Diviso anche geograficamente: Nord con prevalenza dei conservatori, Centro in mano ai socialisti, Sud sedotto da Chega. Montenegro, 51 anni, si sforza di convincere che «non è un premier di passaggio», che il suo governo composto esclusivamente da appartenenti all’Alianca Democratica (fusione fra conservatori, che esibiscono l’etichetta un po’ ingannevole di socialdemocratici, democristiani e monarchici) può durare fino al termine della legislatura.
Il suo punto di forza, in tempi convulsi, è la moderazione. Il suo tallone d’Achille è la quasi totale mancanza di esperienza nel campo della pubblica amministrazione: in gioventù è stato solo sindaco in un paese vicino a Porto. Ha costruito tutta la carriera nei corridoi del partito socialdemocratico. Da giovane per mantenersi agli studi di legge faceva il bagnino. E da avvocato ha operato nei settori del commercio e del turismo. Si mormora che nel 2008 sia stato iniziato alla massoneria, ma lui nega. Molto attento ai territori: da quando, nel 2022, ha assunto il comando del partito ha trascorso una settimana al mese in un distretto sempre diverso per affrontare di persona le problematiche locali. «La sua dote migliore», segnala un militante di centro-destra, «è la grande capacità di ascolto».
Il diavolo e l’acqua santa
Per rimanere a galla e onorare sia pur parzialmente le sue mirabolanti promesse Montenegro sarà obbligato a governare a colpi di decreto, almeno nelle materie che lo consentono. O a venire a patti negoziando su ogni disegno di legge con gli altri partiti dell’arco democratico. In primo luogo con i socialisti, sconfitti di misura, scalzati bruscamente dal potere che detenevano da otto anni per un caso di corruzione relativo al mercato del litio e dell’idrogeno verde. Un pasticcio che per un equivoco ha coinvolto per qualche giorno anche il premier uscente Antonio Costa inducendolo a dimissioni forse un po’ precipitose. Il nuovo capo Pedro Nuno Santos, leader dell’ala sinistra del partito, dalla personalità un po’ presuntuosa, assicura lealtà istituzionale ma non al punto di ridursi a ciambella di salvataggio. Montenegro lo esorta a esercitare un ruolo di «opposizione democratica» e non di «intralcio» e invita l’intera opposizione a stringere un patto di lotta alla corruzione.
Nuno Santos, di rimando, garantisce che non presenterà mozioni di censura ma esclude di poter approvare per intera la legge di bilancio. Su molti dei grandi temi i progetti son troppo divaricati. I conservatori ventilano una diminuzione delle tasse (choc fiscale) che sarebbe realizzabile solo con un livello di crescita almeno doppio dell’attuale. I socialisti puntavano a far crescere il Pil con l’aumento graduale degli stipendi e la diminuzione dell’orario di lavoro. Stato liberale contro Stato sociale. Impossibile conciliare il diavolo e l’acqua santa.
«In otto anni», commenta un vecchio socialista, «Costa ha fatto crescere il Pil di oltre il due per cento e fatto scendere il debito pubblico di 35 punti. Tanto che l’agenzia di rating Moody’s ha promosso il Portogallo di due livelli nella graduatoria dell’affidabilità. Abbiamo raccolto un Paese in ginocchio per i massicci licenziamenti imposti dalla Trojka e l’abbiamo rimesso in piedi con un piano di austerità controllata che ha rilanciato tutti i settori produttivi. Che si poteva fare di più? Cosa possono fare di più i conservatori?».
Esercizi di equilibrismo
Il calo repentino dei socialisti non è attribuibile solo allo scandalo finanziario. È vero che in termini di macroeconomia il Portogallo era diventato una sorta di Paese-modello. Sulla crescita ha inciso in maniera massiccia l’esplosione del turismo che ha moltiplicato la gamma di impieghi però prevalentemente precari. Oltre all’afflusso (ora interrotto) dei pensionati attratti dalle agevolazioni fiscali che ha fortemente alimentato i consumi ma anche favorito la gentrification per l’impossibilità dei portoghesi di pagare affitti non più alla loro portata nei quartieri centrali.
La ricchezza prodotta si riversava in misura esigua sui cittadini. Con salari mensili che non superano i mille euro e le pensioni che raramente oltrepassano i 500. Insufficienti a fronteggiare l’esplosione del carovita. E con la sanità pubblica in affanno. Uno squilibrio sociale che si è ripercosso nelle urne.
Per sanarlo e resistere in sella, Montenegro dovrà fare l’equilibrista sperando che le prossime elezioni europee rafforzino se non altro come tendenza le sue posizioni. Ha il pieno appoggio di Marcelo Rebelo de Sousa, il presidente della Repubblica (pure conservatore). Che vorrebbe far durare il governo almeno fino al termine del suo secondo mandato (inizio 2026) e si agita per smussare i contrasti fra i principali partiti. Ma se la navigazione diventerà troppo tempestosa non resterà che ricorrere agli strumenti della democrazia con il ritorno alle urne. Forse già il prossimo autunno.