Il mio primo incontro con l’ambasciatore Attanasio è avvenuto durante una riunione online tra le associazioni no-profit italiane attive nella Repubblica Democratica del Congo. Era metà dicembre e una pioggia torrenziale scandiva il tempo lento della mattinata africana.
Da circa tre mesi ero nel paese per gestire “sul campo” i programmi educativi e sanitari di AMKA, una piccola no-profit romana che porta avanti da circa vent’anni progetti di sviluppo integrato e sostenibile nel sud del paese, e fui invitato a partecipare insieme a diverse decine di alti responsabili di alcune tra le principali ONG presenti nel territorio.
L’ambasciatore si presentò di fronte alla webcam con camicia bianca e sorriso largo, circondato da vari esponenti di associazioni che operano nella capitale congolese a sostegno dei bambini di strada. Appesa al collo, anche lei con un sorriso aperto e negli occhi una scintilla di simpatica furbizia, la sua figlia di quattro anni si volteggiava senza sosta.
Ricordo che durante la due ore d’incontro riuscì con una nonchalance senza pari a mantenere un perfetto tono istituzionale senza smettere di avere tra le sue le mani della bimba. Lei giocava a fare l’acrobata davanti al computer e lui raccontava il suo essere in prima linea nella lotta alla miseria, a cominciare dalla “sua” città, Kinshasa, dove con la moglie Zakia Seddiki gestiva una ONG per orfani e bambini abbandonati di nome “Mama Sofia”.
Pensai subito che c’era qualcosa di straordinario in quella persona. Un ambasciatore, il primo rappresentante italiano nel terzo paese più grande del continente africano, capace di mostrarsi in tutta la sua umanità di padre davanti a un gruppo di responsabili che lo conoscevano per la prima volta. Ne restai stupito ed esterrefatto.
Nei giorni seguenti mostrò ancora la sua umanità lavorando senza sosta perché i progetti di cooperazione nel paese fossero strumenti vivi al servizio dei più deboli.
Con una passione che di rado mi era capitato di percepire all’interno di istituzioni così di rilievo, viaggiava in lungo e in largo tra le numerose regioni dell’immenso territorio congolese per visitare in prima persona i progetti che aiutava a nascere ed evolvere.
Scuole, ospedali, centri di accoglienza; aveva avviato un processo di cambiamento radicale attraverso la creazione di una rete fatta di incontri e connessioni, base per un impatto positivo e sostenibile in una terra tanto benedetta quanto calpestata e maltrattata.
Nel suo impegno ho letto un pizzico del mio, qualcosa di utopico: guardi il Congo e ci vedi un posto pericoloso, martoriato, sul baratro del tracollo, ed appunto per questo spendi tutto te stesso per farne un luogo fertile dove lasciar fiorire un domani di pace.
Appena appresa la notizia dell’uccisione ho avvertito il suono fragoroso di una mancanza incolmabile, l’eco di una enorme solitudine e la consapevolezza che una visione radicale di cambiamento si era fatta polvere.
Luca Attanasio, attraverso l’impegno instancabile e un attivismo umanitario disinteressato spinto ben oltre le sue funzioni, aveva mostrato le possibilità sconosciute al palazzo di farsi vicino alle piccole storie di sofferenza e resilienza quotidiana.
Con la sua morte, scompare un esempio cristallino di come le istituzioni abbiano la possibilità di farsi prossime degli strati più fragili della popolazione. Con la sua morte, cade una piccola utopia di umanità nata nelle fredde stanze dello stato.
Personalmente, lo ricorderò sempre così, in camicia bianca, sorridente e impeccabile nell’aspetto, mentre la figlia tenta improbabili passi di danza sul suo collo. In questa immagine trovo racchiuso il senso di una professione vissuta con dedizione, con gli occhi del gioco e con la speranza infantile di rivoluzionare uno status quo nato da una storia secolare di violenza.
Qui in Congo, Luca Attanasio non era solo ambasciatore, ma un riferimento per tutti coloro che cercano quotidianamente di restituire un futuro a questa terra depredata. Senza di lui, ci sentiremo tutti un po’ più soli. Senza di lui, sarà responsabilità di ognuno continuare a dare vita al suo messaggio di speranza senza scadere nel facile odio vendicativo. Ce n’è bisogno in Congo e in ogni fazzoletto di mondo dove guerre e miserie ne hanno cancellato il senso.
Addio ambasciatore papà, ci mancherai.
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