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    Ho trascorso vent’anni con gli indios in Brasile: ecco cosa ho imparato

    “A contatto con gli Yanomami ho potuto verificare di quante poche cose l’uomo ha davvero bisogno per vivere dignitosamente": il racconto dell'indigenista Loretta Emiri

    Di Anna Ditta
    Pubblicato il 15 Mar. 2017 alle 12:12 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 20:29

    Gli Yanomami sono uno dei popoli indigeni più numerosi del Sudamerica. Abitano nelle foreste pluviali e sulle montagne in una zona compresa tra il nord del Brasile e il sud del Venezuela. Ancora oggi vivono in relativo isolamento, per questa ragione poter ascoltare i racconti sulla loro vita e sulla loro cultura da chi li conosce – e con loro ha trascorso degli anni – è un’occasione preziosa.

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    Oggi gli indigeni Yanomami sono circa 35mila. Secondo l’organizzazione Survival International, il loro territorio in Brasile ha un’estensione pari al doppio della Svizzera (oltre 9,6 milioni di ettari), mentre in Venezuela occupa la Riserva di Biosfera Casiquiare-Alto Orinoco, vasta circa 8,2 milioni di ettari. Insieme, queste due aree costituiscono il territorio forestale indigeno più vasto del mondo.

    Loretta Emiri, nata in Umbria e naturalizzata brasiliana, è un’indigenista. Ha trascorso alcuni anni vivendo con gli Yanomami. Il suo nuovo libro di racconti A passo di tartaruga – Storie di una latinoamericana per scelta, pubblicato da Arcoiris Edizioni, contiene 25 racconti, alcuni dei quali rimandano direttamente al periodo in cui l’autrice ha vissuto nell’Amazzonia brasiliana.

    Il filo conduttore che percorre tutti i racconti di Loretta Emiri è il viaggio, inteso soprattutto come un percorso interiore. TPI l’ha intervistata.

    Da cosa è nato il suo interesse per gli indigeni e come mai ha lasciato l’Italia per spostarsi in Brasile? 

    Fin da piccola manifestavo curiosità e solidarietà nei confronti del cosiddetto terzo mondo. Lasciare l’Italia per andare a operarvi era un’insopprimibile esigenza interiore, ma ho potuto farlo, naturalmente, solo dopo aver raggiunto una certa età, e ciò è avvenuto quando avevo quasi trent’anni. Nel frattempo avevo conosciuto persone che lavoravano con gli indios Yanomami in Brasile, quindi è lì che ho deciso di andare.

    I primi quattro anni e mezzo li ho trascorsi in foresta a diretto contatto con questo popolo che non solo ho osservato, ma con cui ho condiviso un periodo importante della mia vita. Successivamente mi sono stabilita nella città di Boa Vista, dedicandomi alla formazione politico-professionale dei maestri indigeni dello stato di Roraima, e sensibilizzando la popolazione locale, che era piena di preconcetti e razzista nei confronti degli indios.

    Poi ho abitato a Brasilia, da dove andavo e venivo per raggiunge villaggi indigeni, sparsi su tutto il territorio nazionale, al fine di impartire corsi di formazione per maestri di varie etnie. In totale ho vissuto in Brasile per diciotto anni.

    (Loretta e la madre con due bambine yanomami dell’area del Catrimâni, in Brasile. L’articolo continua dopo la foto)


    In cosa consisteva il piano di presa di coscienza che ha portato avanti? Se l’obiettivo era fornire agli Yanomami gli strumenti per difendersi dai bianchi, in che misura questo è stato raggiunto? 

    Il piano prevedeva di mettere gli indios in condizione di capire cosa stava avvenendo intorno a loro e di organizzarsi. Era l’epoca in cui il territorio yanomami era stato appena squarciato dalla costruzione dalla strada che doveva congiungere il Brasile alla Colombia; strada, fra l’altro, mai ultimata, ma che ha avuto il potere di far scomparire villaggi interi a causa delle malattie introdotte dagli operai della strada appunto.

    La semplice influenza o il morbillo erano letali per Yanomami, che non avevano anticorpi per questo tipo di malattie arrivate con l’uomo bianco. L’alfabetizzazione di adulti nella lingua materna faceva parte del piano di coscientizzazione, però l’esperienza più incisiva e valida fu quella di mostrare agli Yanomami, attraverso la proiezione di diapositive, come gli indios di altre etnie stavano prendendo consapevolezza, stavano reagendo e stavano organizzandosi contro le invasioni, i soprusi, le prepotenze, la violenza degli occidentali.

    L’obiettivo è stato progressivamente raggiunto, perché oggi gli indios non hanno più bisogno di portavoce, di intermediari: loro stessi portano avanti le proprie rivendicazioni; anzi, lo fanno in modo così coraggioso e coerente che sono divenuti un esempio per altre categorie oppresse e marginalizzate all’interno della società brasiliana.

    Ha detto di essere stata educata dagli Yanomami. Quali sono state le cose più importanti o più belle che ha imparato? 

    Nel cesto da carico che la donna yanomami trasporta quando il gruppo locale si sposta nella foresta, sono contenuti tutti i beni materiali appartenenti alla famiglia; ripeto: appartenenti alla famiglia.

    Da molti anni ormai, uno dei maggiori problemi che l’occidente affronta è lo smaltimento dei rifiuti. Produciamo rifiuti, non riusciamo più a smaltirli, la loro tossicità ci sta sterminando. Più accumuliamo, più siamo insoddisfatti. L’affannoso accumulo di cose, del superfluo, ci allontana dalla riflessione, dall’introspezione, dai sentimenti, dalle emozioni; tutto ciò si combatte facendo scelte che vanno controcorrente ma che ci portano al cospetto di noi stessi e delle persone che amiamo.

    La tranquillità, la serenità, l’allegria sgorgano fuori dai sentimenti, dalla complicità che gli esseri umani instaurano tra di loro, non certamente dalle cose che riescono ad accumulare. A contatto con gli yanomami ho potuto verificare di quante poche cose l’uomo ha veramente bisogno per vivere dignitosamente.

    Anche assistere a un parto mi ha regalato emozioni e considerazioni definitive. La partoriente era circondata da donne e bambini che assistevano allegri; appena il bambino è nato, la mamma stessa ha tagliato il cordone ombelicale, poi ha raggiunto il fiume per lavare sé stessa e la creatura; infine, con il bimbo al collo, si è messa in viaggio per seguire la comunità che aveva programmato uno spostamento in foresta. Detto in altre parole: il parto è la cosa più naturale che possa accadere a una donna, a condizione che la cultura occidentale non lo trasformi in un evento in cui la fanno da padrone le grida, il sangue, i tagli, i punti, le corsie d’ospedale, che è esattamente la truce immagine che io stessa avevo del parto.

    (Alfabetizzazione di indigeni adulti nell’area yanomami del Demini. L’articolo continua dopo la foto) 

    La sua è una vita a cavallo di tre culture: quella italiana, quella brasiliana e quella yanomami. Come concilia tutto questo? 

    Il tutto si concilia molto bene perché l’identità non è definitiva, è qualcosa che si modifica gradualmente, giornalmente, dentro di noi. Dalle tre culture continuo a estrarre il meglio per costruire, modificare, migliorare la mia identità. Non penso nella lingua yanomami, perché non l’ho imparata sufficientemente, ma ancor oggi, a distanza di tanti anni dal mio rientro in Italia, mi capita di pensare in portoghese e mi autodefinisco latinoamericana per scelta.

    Come mai è tornata in Italia? Cosa l’ha spinta verso la scrittura? 

    Sono rientrata in Italia per prendermi cura di mia mamma, che si è meritata tutte le mie attenzioni per aver superato lo smarrimento che la mia scelta di vita le ha procurato in un primo momento. È poi divenuta la mia più fedele e convinta sostenitrice. Sono rientrata anche per realizzare l’altro sogno che mi accompagna da quando ero bambina: divenire una scrittrice. Tutti i miei libri, e quindi anche l’ultimo pubblicato (A passo di tartaruga – Storie di una latinoamericana per scelta) riscattano la privilegiata esperienza fatta tra gli indios brasiliani. La rivisitazione dell’esperienza è esplicita e voluta, per cui posso affermare che attraverso la scrittura sto dando continuità all’esperienza stessa.

    Qual è la situazione attuale di questo popolo? Che tipo di difficoltà incontrano? Come vengono visti dagli altri brasiliani? Come sono stati trattati negli anni? 

    La situazione degli Yanomami continua a essere estremamente precaria e instabile. Anche se il loro territorio è stato riconosciuto e demarcato, i tentativi di invasione dal parte dei fronti di espansione della società occidentale si susseguono spudoratamente.

    Ci sono progetti di legge in esame che vorrebbero impiantare l’estrazione mineraria, l’insediamento di segherie, la trasformazione della foresta in pascolo. C’è poi l’entrata illegale dei cercatori d’oro. Poi ci sono i tagli ai finanziamenti della Funai, che è l’organo statale di protezione degli indios, tagli che si ripercuotono sulla salute e l’educazione, e anche sulla protezione delle comunità che non hanno ancora avuto contatti con l’uomo bianco.

    Sono tutti pericoli reali per gli Yanomami; estenuante e costante è la loro lotta nell’affrontarli. La differenza rispetto a quando ero tra loro è che oggi sono organizzati, molti fra di loro sono leader instancabili, annoverano alleati tra la popolazione bianca e tra altre realtà brasiliane organizzate, come ad esempio il Movimento dei Senza-terra.

    Negli anni Settanta del secolo scorso gli Yanomami e gli indios in generale erano visti come esseri inferiori che intralciavano il progresso. La loro caparbia lotta per la sopravvivenza fisica e culturale li ha portati a ottenere vittorie e conquiste ed è per questo che oggi sono più ascoltati e rispettati sia a livello nazionale che internazionale, hanno ormai molti alleati nel mondo scientifico e artistico, ma non possono, in nessun momento, abbassare la guardia.

    Quali sono le due parole più belle della lingua yanomami? 

    Per me due parole sono particolarmente espressive: urihi, che significa foresta, ma anche terra, mondo, universo yanomami. Invece la parola xiihete significa “generoso”, e la generosià per gli Yanomami è il valore più grande in assoluto. Tanto che affermano che nella “terra di sopra” andranno solo coloro che sono stati generosi in vita.

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