Della parola “lobby” negli anni si sono riempiti la bocca politici di ogni schieramento, cercando un facile capro espiatorio potente e occulto a cui imputare ogni problema – dalle malvagie case farmaceutiche alla lobby gay che si nasconderebbe nell’ombra in Vaticano.
Due esempi lampanti di questa tendenza li hanno forniti negli ultimi mesi i due vicepremier del governo gialloverde, Matteo Salvini e Luigi Di Maio. Il leader leghista, infatti, a giugno aveva parlato pubblicamente della “lobby degli avvocati d’ufficio che prospera grazie ai ricorsi alle domande d’asilo respinte”, difendendo quindi i migranti per puro rendiconto personale.
Dal canto proprio, invece, contro delle non meglio precisate lobby si era scagliato il Ministro dello Sviluppo Economico parlando di una “manina” malevola che durante la notte avrebbe aggiunto all’interno del Ddl Dignità dei dati che indicavano una contrazione di 80mila posti di lavoro in dieci anni in caso di approvazione della legge.
Sentire usata la parola “lobby” quasi come una parolaccia, sinonimo di corruzione e malaffare, è dunque spesso la regola in Italia. Eppure, i gruppi di pressione fanno parte del sistema democratico da secoli, non rappresentano certo soltanto gli interessi di multinazionali o altri “poteri forti” e non agiscono soltanto a livello nazionale.
A pochi mesi dalle elezioni europee del 2019 che chiameranno alle urne milioni di cittadini provenienti dai 27 paesi dell’Unione, TPI ha deciso di parlare con degli specialisti italiani del settore che lavorano a Bruxelles, cuore decisionale dell’Ue, come lobbisti.
“Partendo da un’attività lavorativa a livello italiano ho trovato piuttosto semplice, da un punto di vista pratico, adattarmi all’arena decisionale europea”.
A spiegarlo è Luca Gargano, che dal 2006 segue per la società di consulenza FB&Associati lo sviluppo di progetti di lobbying per conto di clienti nazionali e internazionali in diversi settori che vanno dai giochi online alle automobili. Da anni Gargano si occupa di lobbying a livello europeo, vivendo anche a Bruxelles per quattro anni.
“Chi si trova a svolgere attività di lobbying a Bruxelles non ha la necessità di spiegare il proprio ruolo, già ampiamente riconosciuto ed apprezzato da parte dei decisori”, racconta l’uomo: “Rapportarsi con l’Unione europea come lobbisti significa trovarsi ad agire su un terreno pronto, maturo, dove le regole di ingaggio sono chiare e precise”.
Un rapporto trasparente tra lobbisti e istituzioni
Alla base di questo rapporto di reciproca fiducia sta la trasparenza, a cui le istituzioni europee tengono molto.
Questa viene consentita, in primo luogo, dall’esistenza di un registro dei rappresentanti di interesse che, tra le altre cose, consente ai lobbisti di avere accesso ai locali dei Parlamento europeo o di ricevere le comunicazioni della Commissione sulle future tabelle di marcia o sulle consultazioni pubbliche.
“Il personale della Commissione è incoraggiato a chiedere ai soggetti interessati se sono registrati prima di eventuali riunioni, mentre i Commissari, i loro membri di Gabinetto e i Direttori generali possono incontrare solo soggetti registrati, qualora le attività di questi ultimi siano soggette all’obbligo di iscrizione nel registro per la trasparenza”, ci spiega Gargano.
Secondo i dati pubblicati dal Parlamento europeo nel luglio 2017, sono oltre 11mila le organizzazioni iscritte al registro: organizzazioni non governative, ma anche associazioni commerciali, compagnie e sindacati.
Eppure, iscriversi al registro non è ancora obbligatorio. D’altronde, a livello nazionale in Europa sono soltanto sei i Paesi che regolano strettamente l’attività di lobby con tanto di registro: Austria, Irlanda, Lituania, Polonia, Regno Unito e Slovenia.
Una proposta della Commissione europea, però, vuole ora rendere obbligatoria l’iscrizione dei gruppi di interesse al registro.
Allo stesso tempo, diverse associazioni che rappresentano i lobbisti, come la European Public Affairs Consulancies’ Association, hanno sviluppato negli anni dei codici di condotta e auto-regolamentazione a cui i membri devono rispondere.
Tutte le strade portano a Bruxelles: rapportarsi con le tre principali istituzioni dell’Ue
Ma iscriversi o meno al registro dei lobbisti è soltanto una delle diverse questioni che un lobbista operante nel cuore decisionale dell’Europa deve prendere in considerazione.
La coesistenza di tre istituzioni che prendono parte, in diversi momenti, al processo decisionale europeo – il Parlamento, la Commissione e il Consiglio – fa sì che si debba sempre tenere a mente una “triangolazione”.
“È quanto mai opportuno avviare un dialogo con la Commissione già nella fase iniziale di elaborazione della proposta per poi proseguire la propria azione nei successivi passaggi in Parlamento e Consiglio, tenendo sempre monitorato il costante dialogo tra le tre istituzioni. Questa struttura, in sostanza, comporta la necessità di dover agire su più fronti lungo tutto il percorso di approvazione della singola proposta”, dice Gargano.
Garante degli interessi dell’Unione europea nella sua interezza – non sempre conciliabili con interessi specifici o nazionali – la Commissione europea è, a dire del lobbista, l’istituzione con cui è più complicato interagire.
“Non va dimenticato che in determinati settori la Commissione può mettere mano a piani di finanziamento ed investimento che spostano diversi miliardi di euro: non a caso la Commissione europea è spesso l’istituzione più importante ma anche la più difficile da approcciare”.
Meno rigido è, a dire di Gargano, il Parlamento: “rappresentando gli interessi dei cittadini europei ed essendo l’unica istituzione ad essere direttamente eletta dai cittadini dell’Unione, risulta spesso più permeabile alle istanze che arrivano dai rispettivi Paesi o territori di appartenenza”.
Per questo è fondamentale capire come adeguare il proprio messaggio alle diverse istituzioni. A spiegarlo è Nicola Scocchi, 27 anni e un ruolo da direttore alla FTI Consulting, una delle più grandi società di consulenza globali a Bruxelles.
“Il lobbista italiano non può basarsi solo su un network italiano ma deve capire come costruire una collaborazione con interessi di altri paesi”, dice. “Ad esempio, la Commissione europea risponde all’interesse generale dell’Europa, quindi se tu gli porti una posizione italiana non vale tanto – mentre invece se fai lobbying su un deputato europeo cercherai di fargli capire qual è l’impatto di una legge sul suo bacino elettorale”.
Ma cosa fa, davvero, un lobbista?
Dal punto di vista pratico, questo si traduce in un instancabile processo di aggiornamento, pianificazione di strategie e comunicazione con politici e funzionari.
“Devi sviluppare e aggiornare la strategia in base a quello che succede. Se vediamo che un politico esce con una dichiarazione sul tema su cui stiamo lavorando, ragioniamo sul fatto che magari è interessante andare a parlare con questo deputato. È ascolto e adattamento della strategia, e poi implementazione della strategia”, spiega Scocchi.
E aggiunge: “Allo stesso tempo è importante lavorare nella comunicazione perché soprattutto quando si parla di aziende avere una reputazione solida è fondamentale”.
Ad entrare ancora più nel dettaglio è Fabio Bistoncini, fondatore di FB&Associati e autore di “Venti anni da sporco lobbista”.
“Noi raccogliamo le istanze di quelli che sono dei gruppi di interesse e cerchiamo di inserirle all’interno dell’agenda politica e istituzionale. Questo significa che bisogna conoscere molto bene il tema di cui si parla, poi prendere in considerazione come il tema possa essere inserito all’interno del contesto: è un tema che sta già nell’agenda politica o va inserita? Quali sono i dati e le motivazioni dietro a questo provvedimento?”.
Il passo seguente è, chiaramente, quello dell’incontro vero e proprio con i decisori – anche quando non si è necessariamente d’accordo con le loro posizioni, sottolinea Scocchi: “il bravo lobbista parla con tutti gli influencer legati alle questioni che segue, quindi che siano di un partito giallo, rosso o verde non cambia niente. Noi parliamo con tutti. Ma purtroppo ci sono certi lobbisti che sono troppo “ammanicati” con un determinato partito e quindi hanno difficoltà a interagire con forze nuove”.
Nonostante lo stereotipo del lobbista che porta avanti soltanto gli interessi dei “poteri forti”, il giovane lobbista ci tiene a far comprendere come qualsiasi gruppo di interesse organizzato, dai pazienti ai consumatori, sia a sua volta una lobby.
“Il politico deve rapportarsi con la società civile, e quindi con i lobbisti”, dice semplicemente.
Una relazione, quella tra gruppi di interesse e politica, che secondo Bistoncini è vitale: “Io sostengo da anni che l’attività di lobbying è funzionale a un sistema democratico: un sistema decisionale che conosce può decidere con cognizione di causa e può decidere anche di non accettare il mio interesse, di respingerlo. Ma almeno lo fa con cognizione di causa”.
Purtroppo, secondo l’esperto, il dibattito mediatico sul tema si incentra solitamente su uno scarso se non assente riconoscimento dell’utilità dell’attività di lobby, portando avanti un pregiudizio durato decenni.
“In Italia, dal dopoguerra ad oggi, c’è stato un soggetto sociale che ha sostanzialmente incanalato tutte le istanze presenti nella società, e questo soggetto era il partito politico. I gruppi di interesse avevano un ruolo assolutamente secondario, quasi ancillare rispetto al partito: è il partito che pensa agli interessi, l’unico a monopolizzare la domanda pubblica”, è la spiegazione fornita da Bistoncini.
“A questo però continua a essere accompagnata una narrazione negativa per cui l’attività di lobby è sostanzialmente sinonimo di corruzione, perché non si riconosce il fatto che la politica non conosce e non può conoscere tutto, e l’attività di lobbying non è altro che un’attività di informazione del processo decisionale”.
In attesa che l’Italia si apra a una maggiore trasparenza di cui la reputazione dei gruppi d’interesse non potrebbe che beneficiare, l’insicurezza rispetto a come e per quanto altro tempo Bruxelles resterà il centro decisionale dell’Europa fa riflettere chi queste decisioni le influenza e studia ogni giorno.
“Bisognerà vedere quanto Bruxelles resterà ancora centrale o se invece sarà necessario focalizzarsi sempre di più a livello di Paese membro o di una regione”, riflette Nicola Scocchi guardando al futuro incerto oltre le elezioni europee del 2019.
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