Lisa Grushcow è il rabbino capo del tempio Emanu-El-Beth Sholom, una sinagoga di Montreal con oltre 130 anni di storia alle spalle. È una donna canadese di 44 anni, madre di due figli – un terzo è in arrivo – divorziata, risposata e omosessuale. È la prima donna dichiaratamente gay a ricoprire un ruolo simile, per essere precisi. La sua è una storia di ostacoli, di fede e di scelte controcorrente.
Il bivio: l’amore per una donna o quello per Dio? Negli anni Novanta, mentre studia religione a Oxford sognando di diventare rabbino, si innamora di una ragazza. Lisa crede di trovarsi di fronte a un bivio: scegliere l’amore o servire Dio? La giovane canadese vuole entrambe le cose, così si unisce al movimento ebraico riformista, l’unica branca dell’ebraismo che accetta studenti omosessuali nelle scuole per rabbini. “Fare coming out mi ha avvicinata di più a Dio”, racconta la donna al New York Times. “Seguire la mia vocazione religiosa e riconoscere il mio orientamento sessuale erano entrambe parti fondamentali della mia identità”, continua.
Ebraismo, omosessualità e questioni di genere – Le sue prime esperienze da rabbino maturano a Manhattan, dove si sente accettata così com’è. “A New York non puoi attraversare dieci isolati senza incontrare almeno un rabbino lesbica”, ironizza intervistata dal quotidiano statunitense. L’ebraismo vanta una lunga tradizione di pionieri quanto a diritti omosessuali e uguaglianza di genere: il primo rabbino donna – Regina Jonas – è stata ordinata a Berlino nel 1935, mentre per arrivare al via libera per l’ordinazione di clero omosessuale bisogna attendere il 1990. “Ma in Canada c’è ancora un soffitto di cristallo macchiato da sfondare”, dice Grushcow, “perché le donne che arrivano a ricoprire il ruolo di rabbino capo sono una rarità”.
Spiega che, in una religione storicamente patriarcale, le persone considerano il rabbino come una sorta di sostituto di Dio, che nell’immaginario collettivo è un vecchio con la barba seduto su una nuvola. “Ma io non gli somiglio affatto”, fa notare.
La paura di non essere all’altezza – Le sue vicissitudini personali l’hanno fatta soffrire, più di una volta ha temuto di essere inadatta al ruolo che ricopre. Quando ha deciso di trasferirsi dagli Stati Uniti al Canada, nel 2012, il suo primo matrimonio è finito. “Credevo di aver fallito. Come rabbino, avrei dovuto dare l’esempio”, ammette. Quando una coppia le ha chiesto che cosa avrebbe dovuto pensare del matrimonio se anche il rabbino divorziava, è andata in crisi.
“Ma essere un rabbino donna, lesbica e madre mi ha permesso di capire più a fondo l’esperienza umana”, riprende, “e di immedesimarmi in più persone”.
Dal ritratto che ne fa Dan Bilefsky emerge una figura ironica ed empatica, una che in breve tempo ha vinto l’iniziale ritrosia dei fedeli e ha saputo attrarre in sinagoga tantissimi giovani. “In occasione dello Yom Kippur posso tenere un sermone di fronte a migliaia di persone e avere la loro attenzione, ma poi torno a casa e le mie figlie – che hanno 9 e 15 anni – non mi ascoltano minimamente”, scherza lei. Il periodico ebraico The Forward, nel 2015, l’ha annoverata tra i rabbini più influenti d’America.
Il rapporto con le Sacre scritture – Sui testi sacri ha le idee chiare. “La Genesi è il libro migliore di sempre quanto a famiglie disfunzionali”, commenta. “Abramo ha quasi sacrificato il suo primogenito, Isacco, sul cucuzzolo di una montagna”, illustra, “e non credo che sua moglie Sarah ne fosse particolarmente felice”.
Agli studiosi ortodossi, secondo i quali l’identità transgender è incompatibile con l’ebraismo perché “Dio non commette errori”, risponde così: “Nel Talmud non si limitano i generi a maschile e femminile. Nella tradizione ebraica, non siamo nati le persone che diventiamo”.
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