O Trump o l’America. Questo è il motto di una delle più violente e dirette campagne di comunicazione che sia mai stata mossa contro un presidente degli Stati Uniti. Ed è sorprendente il fatto che quelle parole non provengano dagli avversari che tutti ci aspetteremmo, cioè il Partito Democratico e il suo candidato alle presidenziali, Joe Biden. In questa campagna, resa molto animata dalle proteste del movimento Black Lives Matters e dal Coronavirus, il vero nemico di Trump sono gli stessi repubblicani. O almeno quelli riuniti nel Lincoln Project, la cui missione apertamente dichiarata è liberarsi del trumpismo.
Politici, strateghi, esperti di comunicazione politica, giornalisti, ricercatori, esponenti del mondo accademico accomunati da due caratteristiche: sono repubblicani e giudicano il loro attuale presidente un pericolo. Si tratta di una vera e propria azione persecutoria, più che una contro-campagna elettorale sembra di assistere al tentativo di minare la stabilità psicologica di Trump spingendolo a qualche passo falso sul piano politico e comunicativo. Una continua e costante provocazione che passa per YouTube, i social network e la televisione.
Una strategia di comunicazione diretta, forte, incentrata su un unico obiettivo: indicare come il modus operandi dell’attuale inquilino della Casa Bianca non abbia nulla a che vedere con il mondo e i valori del partito e dimostrare come sia il peggior presidente di sempre per gli Stati Uniti. L’approccio conferma l’intento quasi persecutorio: i video, che hanno la stessa durata media degli spot elettorali, vengono trasmessi esclusivamente nelle città in cui si trova Trump, nel momento in cui è presente sul posto (in genere Washington nei giorni feriali, Virginia o Florida nei festivi), sui canali televisivi che il presidente segue con maggiore assiduità e nelle fasce orarie in cui sono in onda le sue trasmissioni preferite.
Sono video su Trump, pensati per Trump. E sono costruiti come attacchi diretti al presidente richiamando quei valori repubblicani di cui non sarebbe più portavoce e infuocando il dibattito intorno a più macroaree, a cominciare dall’emergenza Covid. Pensiamo alle ormai celebri dichiarazioni del presidente sul numero di tamponi: più ne faremo, più casi troveremo. Quelle parole sono state oggetto di uno spot molto crudo del Lincoln Project, in cui Trump è accusato di essere un incosciente.
Viene così lanciato un hashtag diventato poi virale, #AmericaOrTrump. Nulla è lasciato al caso, tutto è studiato nei minimi dettagli. Trump ripete le parole “slow the testing down, please!”, creando una contrapposizione, sul piano sia visivo sia descrittivo, con le immagini che scorrono. La voce narrante racconta le conseguenze del negazionismo trumpiano sulle vite di migliaia di cittadini americani.
Dalla presenza di un nuovo hashtag alla durata da trailer (solo ventiquattro secondi), lo spot successivo comincia con una ripresa su sette sacchi per cadaveri di colore bianco. In sottofondo la voce del presidente Trump mentre, in una conferenza stampa di febbraio, dichiara che i casi di Coronavirus presto sarebbero stati vicini allo zero. Le parole “close to zero” rimbombano diverse volte con la voce che diviene sempre più distorta, mentre l’inquadratura si allarga al punto da rivelare una bandiera americana composta da un numero elevatissimo di sacchi. Le ultime parole sono una sentenza, “100.000 dead Americans. One wrong president”. Lo spot si chiude con il fischio del vento in un sottofondo, quasi a ricordarci un cimitero.
Il medesimo concetto viene ribadito con toni e immagini ancor più forti in un altro spot: il presidente ha ormai costruito il proprio muro, fatto non di mattoni, ma di bare. Anche in questo caso l’atmosfera è spettrale. Non si sentono voci, solo il silenzio tanto assordante quanto eloquente di una strada deserta. Le immagini e il testo che scorrono rendono il video una vera e propria spada di Damocle sulla testa di Trump, un’accusa esplicita di aver lasciato morire 140.000 connazionali.
E ancora, conoscendo quanto Trump sia ossessionato dalla fedeltà del proprio staff e dei propri familiari, e quanto sia terrorizzato dalle fughe di notizie, uno degli ultimi spot è stato interamente costruito per una sola persona: Trump, appunto. L’obiettivo è chiaro, costruire un pavimento fatto di cristallo pronto a crollare. E non è da escludere che il rimpiazzo del campaign manager, Brad Pascale, non sia che una prima crepa ben visibile sotto i piedi del presidente. Negli ultimi giorni la quantità di video e spot ormai virali del Lincoln Project è aumentata notevolmente. Gli attacchi a Trump, così come i toni, sono sempre più feroci, segno di come la partita sia diventata davvero infuocata. I contenuti variano, attingono alla stretta attualità (si pensi allo spot che rende onore a John Lewis) e ampliano il bacino delle persone prese di mira, attaccando pedine per arrivare, in maniera trasversale, al re.
È difficile prevedere quanto le azioni del Lincoln Project stiano influendo e influiranno sull’esito della campagna elettorale. Una cosa è certa: la risposta dell’inquilino dello Studio Ovale non si è fatta attendere. Ha definito i fondatori del movimento “rinos”, dipingendoli come elitari che pensano ai suoi sostenitori come a esseri deplorevoli. Il punto però è un altro: l’unico a essere definito deplorevole dal Lincoln Project è lo stesso Trump. Nessuna parola contro i suoi sostenitori che restano pur sempre dei repubblicani. Insomma ancora una volta Trump esagera, ed esagerando sembra sbagliare bersaglio.
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