All’indomani della presentazione del nuovo piano della Commissione europea sull’immigrazione, che si basa su una maggiore cooperazione con gli stati esterni all’Ue per controllare i flussi migratori, l’Ong Amnesty International pubblica un rapporto che rivela nuove prove sulle violenze messe in atto contro rifugiati e migranti in Libia.
Il nuovo rapporto, intitolato “Tra la vita e la morte“, contiene i drammatici resoconti di rifugiati e migranti che hanno subito o assistito a torture, sparizioni forzate, stupri, detenzioni arbitrarie, lavori forzati, sfruttamento e uccisioni da parte di attori statali e non statali, in quello che viene definito dall’Ong “un clima di pressoché totale impunità”.
“Siamo pronti ad attraversare il mare. Non c’è alcuna evacuazione, alcun reinsediamento. I rifugiati in Libia sono in pericolo. Siamo tra la vita e la morte”, ha dichiarato ad agosto un rifugiato ad Amnesty.
Le violenze nei centri di detenzione
Nel 2020, migliaia di rifugiati e migranti intercettati in mare dalla guardia costiera libica sono finiti nei centri di detenzione ufficiali diretti dalla Direzione per il contrasto all’immigrazione illegale (Dcim), che dipende dal ministero dell’Interno del Governo di accordo nazionale (Gna), riconosciuto dalle Nazioni Unite, che controlla la Libia occidentale. Inoltre, altri migranti riportati in Libia sono stati trasferiti in centri non ufficiali di detenzione – tra cui la famigerata Fabbrica del tabacco di Tripoli – controllati da una milizia di Tripoli affiliata al Gna e comandata da Emad al-Trabulsi.
Amnesty International ha raccolto le testimonianze di decine di rifugiati e di migranti che hanno riferito ad di aver assistito alla morte di persone a loro care nei centri di detenzione ufficiali o in quelli gestiti dai trafficanti.
Almeno 30 migranti sono rimasti uccisi e 11 sono stati feriti il 27 maggio 2020, quando uomini armati hanno aperto il fuoco contro circa 200 persone detenute dai trafficanti nei pressi della città di Mazda. Non si sa cosa sia accaduto agli altri migranti, che potrebbero essere morti o trovarsi sequestrati in località sconosciute. Finora, nonostante le promesse, le autorità libiche non hanno indagato sulle uccisioni di Mazda e su altri crimini commessi contro i rifugiati e i migranti.
Al Gna sono ufficialmente legati – conferma Amnesty – due uomini su cui pende un mandato d’arresto da parte delle autorità libiche e i cui nomi figurano nella lista delle persone sottoposte a sanzioni da parte delle Nazioni Unite per il loro presunto coinvolgimento nel traffico di esseri umani. Si tratta di Ahmad al-Dabbashi, detto “al-Amou”, che è stato visto combattere con le forze del Gna nell’aprile 2020, e di Abdelrahman Milad, detto “al-Bija”, comandante della guardia costiera libica presso la raffineria della città portuale di al-Zawiya.
Sfruttamento da parte di milizie e gruppi armati
Come documentato da Amnesty, spesso rifugiati e migranti vengono sfruttati dai datori di lavoro e costretti ai lavori forzati da parte di milizie e gruppi armati. Alcuni video, verificati e validati dall’Ong, mostrano milizie e gruppi armati libici rastrellare rifugiati e migranti e compiere violenze contro di loro. Alcuni sono anche stati costretti a partecipare a operazioni militari.
Molti di loro vivono in alloggi squallidi, senza acqua potabile o strutture per lavarsi: l’assenza di misure preventive di igiene e l’impossibilità di rispettare il distanziamento fisico aumentano i rischi di contrarre il Covid-19. Gran parte di loro ha difficoltà ad accedere alle cure mediche ed è esclusa dai provvedimenti ufficiali di contrasto alla pandemia.
Xenofobia e razzismo
I rifugiati e i migranti sono sempre più bersaglio di razzismo e xenofobia. Autorità di governo, milizie e gruppi armati spesso usano espressioni razziste, come “i negri”. La pandemia da Covid-19 ha esacerbato il razzismo e sempre di più i rifugiati e i migranti sono accusati di aver diffuso il virus nel paese e si chiede la loro espulsione.
Le ricerche di Amnesty International hanno rivelato che nel 2020 le autorità che controllano la Libia orientale hanno espulso oltre 5000 rifugiati e migranti senza un giusto processo e senza che potessero contestare il provvedimento. L’accusa per tutti era quella di essere “veicoli di malattie contagiose”.
Le colpe dell’Italia e dell’Ue
L’Ong sottolinea l’inadeguatezza degli gli attuali programmi di evacuazione e reinsediamento, che non bastano a garantire un’uscita legale e sicura dalla Libia. Fino all’11 settembre 2020, solo 5.709 rifugiati in condizione di vulnerabilità avevano beneficiato di questi programmi, un risultato provocato – secondo Amnesty – dal “basso numero di posti per il reinsediamento su cui si sono impegnati gli stati che ricevono rifugiati, compresi quelli dell’Unione europea”. A peggiorare le cose sono arrivate le limitazioni ai viaggi imposte dalla pandemia da Covid-19. Prima che a marzo fossero chiuse le frontiere, infatti, dalla Libia erano stati evacuati solo 297 rifugiati.
“Un paese ridotto a pezzi da anni di guerra è diventato un ambiente ancora più ostile per rifugiati e migranti in cerca di una vita migliore”, dichiara Diana Eltahawy, vicedirettrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord. “Invece di essere protetti, vanno incontro a una lunga serie di agghiaccianti violenze e ora sono persino ingiustamente accusati, per motivi profondamente razzisti e xenofobici, di aver diffuso la pandemia da Covid-19”.
“Nonostante tutto questo, anche quest’anno l’Unione europea e i suoi stati membri stanno portando avanti politiche che intrappolano decine di migliaia di uomini, donne e bambini in un circolo vizioso di crudeltà, dimostrando un cinico disprezzo per la loro vita e la loro dignità”, ha aggiunto Eltahawy. “Poiché le autorità libiche seguitano a non agire a fronte di un consolidato sistema di violenze contro i rifugiati e i migranti, l’Unione europea e i suoi stati membri dovrebbero rivedere completamente la loro cooperazione con la Libia, condizionando ogni ulteriore forma di sostegno all’adozione di misure immediate per fermare le orribili violenze ai danni dei rifugiati e dei migranti, come ad esempio porre fine alla detenzione arbitraria e chiudere i centri di detenzione per migranti. Fino ad allora, nessuna persona soccorsa o intercettata in mare dovrebbe essere fatta tornare in Libia e, al contrario, dovrebbe essere fatta approdare in un porto sicuro”, ha proseguito Eltahawy.
L’Italia e gli altri stati membri dell’Unione europea dal 2016 collaborano con le autorità libiche attraverso la fornitura di imbarcazioni veloci, formazione e assistenza nel coordinamento delle operazioni in mare, per assicurarsi che le persone che intraprendono il viaggio nel Mediterraneo siano intercettate e riportate in Libia. In questi quatto anni, la guardia costiera libica sostenuta dall’Ue ha intercettato in mare e riportato in Libia circa 60mila uomini, donne e bambini, 8435 dei quali dall’inizio del 2020.
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