La guerra in Libia, dove l’Italia mantiene fortissimi interessi strategici, energetici e di sicurezza, costituisce ormai per l’Europa il più pericoloso fronte aperto nel Mediterraneo. Il recente rivolgimento della situazione a favore del premier Fayez al-Serraj, leader dell’unico governo riconosciuto legittimo dall’Onu nel Paese africano e appoggiato dalla Turchia, non fa che aumentare i rischi di ritrovarci in casa centinaia se non migliaia di ex mercenari siriani, reclutati ad opera del presidente turco Recep Tayyip Erdogan e del suo omologo russo Vladimir Putin.
Grazie al sostegno militare turco, il Governo di Accordo Nazionale di Tripoli avanza da settimane contro l’Esercito Nazionale Libico, guidato dal maresciallo Khalifa Haftar che ad aprile dello scorso anno aveva lanciato un’offensiva sulla capitale, fallita definitivamente all’inizio di questo mese, contando sul sostegno di Russia, Emirati Arabi Uniti ed Egitto. Il capovolgimento del fronte ha visto i combattenti fedeli al governo di Serraj e le milizie filo-turche, composte anche da migliaia di mercenari siriani, uscire dall’assedio della città, conquistare importanti postazioni avversarie e lanciarsi su un obiettivo fondamentale come il golfo di Sirte e la base aerea di al-Jufrah, tuttora sotto attacco e difese dalle forze di Haftar, anch’esse composte da migliaia di combattenti provenienti da Siria, Sudan, Russia e dall’Asia centrale russofona.
Sirte, situata circa a metà strada tra Tripoli e Bengasi, capoluogo della Cirenaica e base delle forze di Haftar, è la città più vicina ai principali terminal di esportazione petroliferi della Libia. La zona era stata conquistata a gennaio dall’Esercito Nazionale Libico e costituisce ad oggi la nuova linea di confronto del conflitto. Dopo l’inaspettata resistenza delle forze di Haftar, che negli scorsi giorni, nonostante la rotta dalla Tripolitania occidentale, hanno tenuto la città, attaccata di slancio dalle milizie filo-turche, il governo di Tripoli e i suoi alleati hanno continuato ad avanzare per cercare di riconquistare un golfo che ogni giorno potrebbe esportare migliaia di barili di petrolio e decine di milioni di piedi cubi di gas.
La scorsa settimana, le Nazioni Unite hanno annunciato una serie di nuovi colloqui per il cessate il fuoco in Libia, ma le rispettive divergenze hanno spinto Ankara e Mosca a rinviare i negoziati diretti tra il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov e il suo omologo turco Mevlut Cavusoglu, che nel fine settimana avrebbero dovuto incontrarsi faccia a faccia a Istanbul. L’organizzazione di colloqui internazionali e la proposta del vicino Egitto per risolvere un conflitto descritto come una guerra civile tra attori locali dimostra ancora una volta la lotta per procura in corso in Libia tra le varie potenze mondiali e della regione, che non esitano ad avvalersi di mercenari, provenienti soprattutto dalla Siria.
Secondo una recente inchiesta del quotidiano britannico The Independent, in Libia potrebbero combattere attualmente fino a 8mila miliziani siriani, impiegati da entrambe le parti in conflitto. Gli investigatori delle Nazioni Unite stimano che più di 1.200 combattenti russi o provenienti dall’Asia centrale russofona siano coinvolti nella guerra in corso nel Paese africano al fianco del maresciallo Haftar, oltre a 2mila mercenari siriani reclutati nelle zone controllate da Damasco e ad altri 2mila sudanesi arrivati a novembre.
L’Osservatorio siriano per i diritti umani ha documentato l’invio in Libia di oltre 13mila miliziani filo-turchi partiti dalla Siria, compresi almeno 150 minori, appartenenti in particolare alle fazioni operanti a Idlib, come la Divisione al-Mu’tasim, il gruppo armato Sultan Murad, la Brigata Suqur Al-Shamal, i combattenti Al-Hamzat e la milizia Suleiman Shah, schierati fino allo scorso mese a sud di Tripoli, nei pressi dell’aeroporto cittadino, nella Al-Hadabah Project area, a Misurata e in altre zone del Paese, dove hanno perso oltre 300 uomini negli scontri con Haftar. Secondo l’Onu, fino a 3mila miliziani siriani reclutati da Ankara sono attualmente impiegati sul campo in Libia.
Se i numeri differiscono tra le Nazioni Unite, i media internazionali e le ong, questi combattenti, impiegati su entrambi i fronti, costituiscono di certo un’ulteriore incognita e un notevole fattore di instabilità nel conflitto libico, visto che limitano la propria fedeltà a una paga settimanale.
Ai miliziani siriani inviati da Ankara a Tripoli, soprattutto da Idlib via Istanbul, vengono promessi fino a 2.000 dollari al mese per un ingaggio di quattro mesi, un notevole aumento rispetto ai 70 dollari mensili ricevuti per combattere insieme alle forze turche nel nord della Siria. I mercenari siriani reclutati al fianco di Haftar da varie compagnie militari private come la russa Wagner Group sono invece pagati oltre 1.000 dollari al mese, in confronto ai meno di 30 dollari percepiti mensilmente in patria.
La maggioranza di questi combattenti è spesso reclutata tra le fasce più povere e fragili del Paese arabo, in particolare dalla provincia ribelle di Idlib, ormai assediata dal regime di Damasco, e dalle zone a sud di Hama e nei pressi di Homs, tutte aree tornate sotto il controllo del presidente Bashar al-Assad, e da Suweida, un centro abitato dalla minoranza religiosa drusa. La devastazione della Siria a seguito di nove anni di guerra e il conseguente tracollo economico del Paese hanno così portato migliaia di giovani a scegliere di andare a combattere all’estero.
Tra i miliziani siriani reclutati soprattutto da agenti russi per conto di Haftar, alcuni provengono infatti da ex gruppi armati ribelli riconciliatisi con il regime, che pagano però ancora varie forme di abuso da parte delle forze di Damasco e che sono stati convinti a lasciare il Paese arabo con la promessa di una buona paga e della fine delle discriminazioni. Altri invece sono partiti dalle zone controllate dal regime solo per sfuggire alla fame, mentre molti combattenti filo-turchi hanno scelto di raggiungere la Libia per scampare a una futura offensiva di Damasco sugli ultimi territori ribelli.
Se le prospettive di queste persone, veterani di ben due guerre civili, non sembrano rosee in patria non lo sono nemmeno nel Paese africano. Alcuni mercenari denunciano infatti episodi di ammutinamento tra le fazioni impiegate in Libia, vista l’assenza di strategie in battaglia, il trattamento riservato dalle autorità e dalla popolazione locale, l’assenza di strategie in battaglia, le perdite, il ritardo nei pagamenti e il gelido benvenuto dei miliziani libici nient’affatto contenti dell’arrivo dei loro “colleghi” dalla Siria.
In considerazione di tutti questi fattori, il crollo di uno dei due fronti aumenterebbe i rischi per il nostro Paese. “Il mio unico pensiero era che qui (in Libia) avrei potuto fare un po’ di soldi e poi attraversare il mare fino in Italia: un viaggio che ancora voglio fare”, ha raccontato al The Independent uno dei combattenti siriani al servizio di Tripoli. “L’Europa è la mia unica speranza”.
Proprio il vecchio continente dovrebbe invece adoperarsi per risolvere il conflitto libico, facendo ben attenzione al destino e al recupero degli ex combattenti, anche siriani, schierati in Libia, il cui arrivo sulle coste europee costituisce più che una mera possibilità: lo dimostra il caso di alcuni mercenari stranieri ingaggiati da Haftar e fuggiti lo scorso anno a Malta per timore di ritorsioni da parte del generale libico dovute a una disputa economica.
Sull’intera vicenda aleggia anche lo spettro dell’estremismo religioso. Alcuni dei gruppi armati citati, come la brigata Sultan Murad, provengono da frange dell’Esercito nazionale siriano, noto anche come Esercito Siriano Libero, una formazione armata sostenuta dalla Turchia e in cui sono confluiti anche vari fondamentalisti. Secondo Rami Abdel Rahman, direttore dell’Osservatorio siriano per i diritti umani, tra i mercenari inviati in Libia potrebbero infatti figurare anche alcuni ex combattenti del sedicente Stato Islamico o di fazioni fedeli ad al-Qaeda. Insomma, se la polveriera libica rischia di scoppiare l’Italia potrebbe finire per dover raccogliere i cocci.
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