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    L’ultima crisi in Libia di cui non parla più nessuno

    Credit: AGF

    Prima il sequestro di un funzionario della Banca centrale a Tripoli, poi la fuga dell’ex governatore dell'istituto in Turchia. Quindi il blocco dei pozzi di petrolio nell’Est e infine il fragile accordo mediato dall’Onu. Ecco cosa c'è dietro la nuova contesa che ha destabilizzato il Paese, dove il mantenimento di un precario status quo sembra l'unico modo per far tacere le armi

    Di Andrea Lanzetta
    Pubblicato il 30 Set. 2024 alle 18:14 Aggiornato il 2 Ott. 2024 alle 16:34

    Il capo del Consiglio presidenziale libico Mohamed al-Menfi è uscito dalla 79esima Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York ostentando ottimismo. L’ultimo accordo mediato dall’Onu per scongiurare una nuova catastrofe in Libia, secondo l’ingegnere ed ex diplomatico, ha il potenziale per «risolvere tutti i problemi politici» del Paese.
    Eppure l’intesa raggiunta dalla missione Unsmil somiglia molto di più all’ennesima soluzione tampone ottenuta in extremis che a una solida base per il futuro. Ma, come spiegò nel gennaio scorso l’ex inviato Onu in Libia Ghassan Salamé, forse è proprio lo status quo l’unica via percorribile a queste latitudini.

    La paralisi
    Il precario equilibrio libico si fonda infatti sul cessate il fuoco raggiunto nel 2020 tra Tripoli e le forze del generale Khalifa Haftar, padrone della Cirenaica, e sull’intesa ottenuta nel 2022 per la distribuzione tra le parti in conflitto delle entrate generate dal petrolio e dal gas. L’ultima crisi che ha paralizzato l’economia nazionale negli ultimi due mesi affonda proprio qui le sue radici.
    Le prime avvisaglie erano cominciate a inizio agosto con una serie di manovre militari di Saddam Haftar, figlio del generale, che aveva mosso le truppe paterne verso il giacimento di Sharara, il più importante del Paese, e l’oasi strategica di Ghadames al confine con Tunisia e Algeria, controllata da Tripoli. A questo si erano aggiunti i nuovi scontri tra milizie rivali nella capitale, che avevano provocato almeno nove morti. La scintilla però era infine scoppiata proprio nel centro politico della Libia, dove tutto ruota intorno alla Banca centrale, l’unico ente in grado di controllare e distribuire i proventi delle risorse energetiche.

    Da più di un anno l’allora governatore Sadiq al-Kabir era in rotta di collisione con il governo del premier Abdelhamid Dbeibah, l’unico riconosciuto a livello internazionale. La Banca centrale accusava l’esecutivo di aver sforato il budget, aumentando la spesa di oltre un terzo. Da parte sua, Dbeibah rimproverava invece ad al-Kabir un’eccessiva vicinanza alle autorità della Cirenaica: mentre il governatore era arrivato a sospendere l’erogazione di nuovi fondi a Tripoli, avrebbe invece approvato una serie di prestiti a banche private dell’est guidate da personaggi vicini a Haftar. 

    Alla fine queste pressioni, definite «inaccettabili» persino dall’inviato speciale Usa Richard Norland, arrivarono a coinvolgere le milizie fedeli al governo tripolino, inviate a circondare la Banca centrale per costringere Kabir alle dimissioni. Fu addirittura sequestrato un funzionario dell’istituto, il che provocò la reazione scomposta del governatore, che il 18 agosto sospese tutte le operazioni della Banca. Quindi proprio il Consiglio presidenziale guidato da al-Menfi firmò un decreto per destituire Kabir, che decise così di fuggire in esilio in Turchia, portandosi però dietro tutte le password e bloccando le transazioni dell’istituto, nel frattempo occupato dalla polizia su ordine del ministro degli Interni, Emad al-Trabelsi. 

    Tutto questo impedì la redistribuzione interna dei proventi generati dalla National Oil Corporation (Noc), ostacolando l’accesso agli almeno 80 miliardi di riserve in valuta estera del Paese. Per tutta risposta, il 26 agosto Haftar dispose il blocco dell’estrazione e dell’export di petrolio dai territori sotto il suo controllo, dove risiede oltre metà delle riserve petrolifere libiche e quattro terminal energetici fondamentali: as-Sider, Brega, Zueitina e Ras Lanuf. Un provvedimento che provocò il crollo dell’export petrolifero dagli 1,18 milioni di barili al giorno prodotti a luglio ai meno di 500mila di settembre, con accuse e minacce incrociate.

    Ma il blocco delle transazioni e la paralisi della Banca centrale impose anche una serie di restrizioni al prelievo di contanti e il mancato pagamento degli stipendi pubblici, mentre lo stop alla produzione petrolifera causò anche lunghe code alle stazioni di servizio del Paese con le maggiori riserve di petrolio in Africa, mettendo pure a rischio il funzionamento di una rete elettrica già sull’orlo del collasso. Insomma, si era di nuovo sull’orlo della catastrofe (e dello scontro armato).

    Il compromesso
    Ci è voluto quasi un mese per arrivare, il 25 settembre scorso, a un accordo mediato dalla missione Unsmil, dopo una serie di sforzi diplomatici di Turchia, Egitto e Qatar. L’intesa prevede la nomina di un governatore ad interim della Banca centrale, Naji Belqasim Issa, direttore del dipartimento cambi, padre dell’unificazione bancaria libica e dirigente dell’istituto da un trentennio, e la conferma di Marai al-Barassi, ex governatore aggiunto di Kabir, come suo vice. Un compromesso che rinvia la nomina degli altri membri del board alla ratifica dell’accordo sui vertici da parte della Camera dei rappresentanti e dell’Alto Consiglio di Stato. Soltanto una volta confermato, Issa potrà quindi procedere alle nomine, che dovranno comunque avvenire «in consultazione con l’autorità legislativa».

    I tempi innanzitutto non sembrano brevi. Se tutto dovesse andare bene, ci vorranno settimane per la ratifica ufficiale delle nomine di Barassi e Issa, che poi ne avrà altre due per scegliere a sua volta il board. La conferma dell’accordo però non è affatto scontata.

    I primi malumori sarebbero infatti già emersi. Malgrado l’ottimismo ostentato da Menfi a New York, il suo consigliere Ziad Daghim avrebbe inviato una lettera alla direttrice ad interim della missione Unsmil, Stephanie Khoury, ricordandole come, secondo l’accordo politico di Skhirat del 2015, la nomina del governatore della Banca centrale rientri nelle competenze del Consiglio presidenziale, il cui capo – non a caso – non ha inviato alcun suo rappresentante alla cerimonia di firma del compromesso mediato dall’Onu. Ma c’è un altro problema.

    La prossima disputa
    Come previsto dall’accordo appunto, questo deve essere ratificato anche dall’Alto Consiglio di Stato, uno dei due organi legislativi libici. Ma quest’ultimo è al centro di una disputa politica e legale da oltre un anno sulla sua presidenza.

    Il conflitto di potere qui coinvolge un altro dei «signori della crisi», denunciati pubblicamente ad aprile dall’ex ministro senegalese Abdoulaye Bathily prima di dimettersi dall’incarico di inviato speciale delle Nazioni Unite in Libia. Parliamo, oltre ai già citati Khalifa Haftar, Abdelhamid Dbeibah e Mohamed al-Menfi, di Mohamed Takala, eletto presidente dell’Alto Consiglio di Stato nell’agosto 2023 con una manciata di voti in più del suo predecessore Khaled al-Mishri, impegnato da allora in un’aspra battaglia politica e legale per recuperare la sua posizione.

    Data la spaccatura provocata da quest’ulteriore disputa e l’importanza di quest’organo nel processo di ratifica e nomine previsto dall’accordo recentemente mediato dall’Onu per la Banca centrale, c’è da scommettere che la soluzione trovata dall’Unsmil possa solo tamponare una falla ma non certo risolvere il problema. D’altronde è così che, da ormai quasi 14 anni, naviga la Libia, a vista. Ma per ora, forse, è meglio così, se è l’unico modo per far tacere le armi. I nodi però prima o poi vengono al pettine. Arrivederci allora alla prossima crisi!

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