Hassan Mansour si trovava in ospedale il 22 ottobre scorso, lo stesso dove pochi giorni prima era nato suo nipote, quando ebbe la notizia della morte del figlio Mohammad, un miliziano di Hezbollah ucciso in un raid di Israele nel sud del Libano. «Eri mio figlio, ora sei il figlio di Hezbollah, un martire. Ringrazio Dio per questo onore», si sente dire dall’uomo in un video diventato virale in rete. «Ora tocca a te o a me», aggiunge abbracciando l’altro figlio, circondato da parenti e amici. «Ci uniremo a Mohammad».
“Shamran”, nome di battaglia di Mohammad Hassan Mansour, è uno dei quasi 60 miliziani del gruppo armato sciita morti negli scambi di colpi di artiglieria sulla Linea Blu, al confine tra lo Stato ebraico e il sud del Libano, dove operano anche i militari italiani della missione Unifil. Ufficialmente, con l’appoggio dell’Iran, Hezbollah sostiene il “Fronte della resistenza” palestinese contro Israele e ha ricominciato i lanci di razzi contro le truppe dello Stato ebraico dopo la violenta reazione di Tsahal contro la striscia di Gaza seguita ai brutali attentati terroristici di Hamas del 7 ottobre scorso. Eppure il movimento finanziato da Teheran non è ancora entrato pienamente in guerra con Israele. Tanto da attirarsi anche qualche critica.
Il 25 ottobre scorso il gruppo libanese ha fatto sapere che il suo segretario politico, Hassan Nasrallah, ha incontrato Saleh al-Arouri, che cura personalmente gli interessi di Hamas in Libano, insieme al capo della Jihad islamica palestinese, Ziad al-Nakhala. Non è stato precisato né il luogo né la data dell’incontro ma nel breve comunicato che ne dava notizia si affermava che l’obiettivo delle tre organizzazioni, classificate come terroristiche dagli Stati Uniti, è di ottenere «una vera vittoria per la resistenza a Gaza e in Palestina» e di fermare «l’aggressione sleale e brutale di Israele contro il nostro oppresso e tenace popolo nella striscia e in Cisgiordania». Il giorno dopo però, un membro dell’ufficio politico di Hamas, Ghazi Hamad, ha dichiarato che il gruppo terroristico palestinese «apprezza» l’impegno di Hezbollah ma ha «bisogno di qualcosa di più per fermare l’aggressione a Gaza».
Il 3 novembre, Nasrallah è intervenuto per la prima volta di persona sul conflitto con un discorso la cui attesa ha tenuto l’intera regione con il fiato sospeso per giorni: «Alcuni si aspettavano che io oggi annunciassi la guerra. Ma siamo in guerra dall’8 ottobre», ha dichiarato. «Il nostro dovere è dare tutto, credere in questa chiamata, siamo pronti al sacrificio». Eppure al fronte non sono ancora stati impegnati né il grosso dell’arsenale né le migliori unità di Hezbollah. Forse non è un caso allora che la reazione filmata di Mansour alla morte del figlio e il suo intervento al funerale il giorno dopo in cui incitava alla lotta contro Israele siano stati così capillarmente diffusi sui canali social vicini ai miliziani, che ormai da anni devono far fronte a un calo dei consensi.
Problemi in paradiso
Malgrado la storica popolarità ottenuta dal “Partito di Dio” per aver obbligato al ritiro dal Libano meridionale le forze di occupazione israeliane nel 2000 e aver combattuto contro lo Stato ebraico nel 2006, nemmeno Hezbollah è riuscita a contenere la rabbia della popolazione locale per il collasso finanziario del Paese e le accuse di corruzione alla classe politica.
Alle elezioni del maggio dello scorso anno, la coalizione guidata dal gruppo armato sciita ha perso la maggioranza, a favore di candidati indipendenti e dell’ascesa delle Forze Libanesi, un partito sostenuto dagli Stati Uniti e dall’Arabia Saudita che ha superato il Movimento Patriottico Libero, vicino a Nasrallah, imponendosi così come la principale fazione cristiana nel Parlamento di Beirut. Da allora prosegue lo stallo politico che, dal novembre 2022, vede le diverse fazioni incapaci di eleggere un presidente, le cui funzioni sono state assunte collettivamente dal Consiglio dei ministri del governo provvisorio di Najib Mikati, in carica dal settembre 2021. Una situazione che sta aggravando la disastrosa crisi economica in cui versa il Libano dove, secondo la Commissione europea, l’80 per cento della popolazione vive in povertà e quasi quattro milioni di persone, tra cui 1,5 milioni di rifugiati e 2,2 milioni di libanesi necessitano di assistenza umanitaria.
Secondo il generale in congedo Hisham Jaber, che dirige il Middle East Center for Studies & Public Relations e una volta vicino al movimento sciita, il partito continua a ricevere quasi 500 milioni di dollari all’anno dall’Iran, ma la popolazione libanese considera comunque Hezbollah parte del sistema politico corrotto, difeso nel 2019 dalle proteste popolari, e incapace negli anni di impedire le ruberie degli altri movimenti al potere.
Il calo dei consensi però è iniziato molto prima delle elezioni dello scorso anno. Secondo un sondaggio condotto in Libano dal Washington Institute, il tasso di approvazione del movimento era calato di quasi 20 punti percentuali tra il 2017 e il 2020, anche all’interno della comunità sciita libanese. Tutto cominciò nel 2011, quando il gruppo inviò i primi combattenti in Siria a sostegno del regime di Bashar al-Assad. Non esistono stime ufficiali, ma oltre confine potrebbero essere morti fino a 1.500 miliziani di Hezbollah. Da allora, come testimoniato dal direttore del portale libanese Janoubia Ali Amin al quotidiano L’Orient Le Jour, il gruppo ha cominciato a farsi carico dei funerali dei miliziani morti e a non lasciare mai sole le famiglie, offrendo aiuto economico ma anche monitorandone le dichiarazioni alla stampa.
Welfare divino
Il movimento non paga solo ai parenti dei “martiri” le esequie dei loro congiunti, ma assicura loro anche un assegno mensile e una solida copertura previdenziale, sussidi preziosi in un momento di grave crisi sociale ed economica come quello vissuto da anni dal Libano. Basti ricordare che nel 2019, all’inizio del collasso finanziario del Paese, il partito fu tra i pochi soggetti a riuscire a pagare i propri dipendenti in dollari. Ma non finisce qui.
Se dopo la guerra del 2006 Nasrallah autorizzò un pagamento una tantum di 100 dollari a ciascun combattente e ai membri della sua famiglia ristretta, nell’ultimo decennio il gruppo ha messo in piedi un vero e proprio sistema di welfare per i suoi miliziani, spesso aperto anche al resto della popolazione. Sebbene gli stipendi della maggior parte dei suoi membri siano limitati, gli appartenenti a Hezbollah sanno che, in caso di bisogno, il partito è pronto a sostenerli a livello sociale.
Il movimento infatti mantiene in Libano una vasta rete di fondazioni che si occupano di sanità, istruzione e media. Tra queste figura in particolare la “Fondazione dei Martiri”, istituita nel 1982, lo stesso anno in cui nacque il movimento. Ufficialmente, l’ente mira a diffondere «la cultura dei martiri» e a prendersi cura delle loro famiglie, versando un contributo mensile e finanziando tra l’altro l’istruzione dei loro figli e l’assistenza sanitaria dei parenti. Inoltre, attraverso la Atlas Holding, questa organizzazione possiede quattro società attive nei settori farmaceutico, energetico e della grande distribuzione.
In totale, secondo il centro di ricerca israeliano Meir Amit, ad oggi la fondazione assiste quasi novemila persone, compresi circa 6.000 figli di combattenti morti e 3.000 vedove e altri parenti. Per ciascun minore, l’ente spenderebbe circa 12mila dollari all’anno mentre l’esborso annuo totale a favore delle famiglie si aggirerebbe intorno ai 100 milioni di dollari, principalmente finanziati dall’Iran e da raccolte fondi organizzate in Libano e all’estero. Anche per questo il movimento riesce ad attirare giovani reclute, spesso provenienti da famiglie povere, a cui offre indottrinamento religioso e addestramento militare.
Pronti alla battaglia
Il principale bacino di utenza del gruppo resta il sud del Libano, a perenne rischio di scontro con Israele, nonostante la fine dell’occupazione risalga a più di 20 anni fa. I primi obiettivi dell’organizzazione sono i minori, che già a sei o sette anni vengono incoraggiati a partecipare alle attività della sezione giovanile del partito, che offre loro sport e incontri culturali. A questo scopo, risulta molto utile la galassia di case editrici, associazioni, enti di beneficenza e media affiliata al movimento, tra cui il canale satellitare al-Manar, l’Associazione Culturale Islamica Maaref, l’Istituto Imam al-Mahdi e il Centro Culturale Imam Khomeini, che propagandano la visione politica e religiosa di Hezbollah.
Ai maggiorenni invece viene offerto un vero e proprio programma di addestramento militare della durata di trentatré giorni. Questi campi si trovano per lo più nella valle della Bekaa, dove la conformazione del terreno ostacola i raid aerei israeliani.
Secondo il libro “Warriors of God” di Nicholas Blanford, le reclute sono qui divise in gruppi da cinquanta persone, «vestite con uniformi mimetiche e costrette a marce punitive attraverso le montagne, appesantite da fucili e zaini pieni di pietre». L’obiettivo primario è «sviluppare la forma fisica e la resistenza» delle reclute per poi insegnare loro come utilizzare le armi principali del gruppo: fucili d’assalto Ak-47 e M-16, mitragliatrici Pkc, mitragliatori calibro .50, lanciarazzi Rpg-7, missili e droni. Le esercitazioni avvengono di giorno e di notte, con una scorta d’acqua di una sola borraccia a testa e una quantità limitata di munizioni. Oltre alla visione religiosa e politica, ai nuovi membri vengono così da subito insegnate le principali tecniche di guerriglia usate da anni dal gruppo nel conflitto con Israele.
In caso di inasprimento degli scontri, la guerra potrebbe svilupparsi proprio come 17 anni fa. Non a caso, decine di migliaia di abitanti nel sud del Libano hanno già abbandonato le proprie case per paura di un’escalation. Nel 2006 infatti, i 34 giorni di guerra coinvolsero tutti, non solo Hezbollah.
Oggi come allora, probabilmente, vedremmo un intensificarsi dei lanci di razzi contro tutte le città del nord di Israele, compresa Haifa. L’arsenale del gruppo infatti conta almeno 150mila missili, tra cui razzi Faj-3 e Katyusha, missili Fajr-5, Khaibar-1 con gittata di 120 chilometri, M302 capaci di raggiungere Gerusalemme, M-600, Zelzal-2 e i famigerati Fateh 110, che coprono quasi l’intero territorio israeliano. Secondo quanto previsto da un’esercitazione compiuta dalle Forze di difesa dello Stato ebraico nel maggio dello scorso anno, stavolta il conflitto potrebbe durare dai sette ai dieci giorni e la maggior parte dei danni si registrerebbe nel nord di Israele, con almeno 1.500 razzi lanciati ogni giorno da Hezbollah, di cui almeno un centinaio andati a segno malgrado i sistemi di difesa Iron Dome e Kelah David. A questa fase, seguirebbe il tentativo di infiltrazione oltre confine dell’unità Raduwan, le forze speciali del gruppo libanese, con attacchi ai villaggi e agli insediamenti israeliani. Intanto, lo Stato ebraico procederebbe al bombardamento di tutti gli obiettivi di Hezbollah in Libano, anche nel quartiere Dahiye di Beirut, e a una campagna di omicidi mirati dei leader del gruppo e di devastazione su vasta scala che, come promesso da Tel Aviv, riporterebbe il Paese «all’età della pietra», distruggendo tutto ciò che ancora funziona delle infrastrutture locali.
Il grande dilemma
Tale eventualità, malgrado il forte sostegno dell’opinione pubblica libanese alla causa palestinese, potrebbe trasformarsi in un clamoroso autogol per il movimento, preoccupato però anche da altri fattori. Primo fra tutti, la qualità dei suoi combattenti.
La maggior parte delle vittime registrate a ottobre negli scontri tra Israele e Hezbollah aveva meno di 25 anni. Considerando che l’addestramento militare comincia intorno ai 18 anni, come sottolineato da Riad Kahwaji, capo dell’Institute for Near East & Gulf Military Analysis (Inegma), i morti erano praticamente tutti alla loro prima esperienza sul campo e non facevano certo parte dei contingenti di veterani schierati in Siria al fianco di Assad. Ma il problema è anche politico.
Secondo un sondaggio pubblicato il 30 ottobre dal quotidiano al-Akhbar, vicino a Hezbollah, il 68,3 per cento degli intervistati è contrario all’apertura di un secondo fronte contro Tel Aviv. Dalla guerra del 2006 inoltre, il gruppo ha imparato che la minaccia di un attacco a Israele è più proficua di un conflitto vero e proprio. Ad esempio, Hezbollah è stato tra i maggiori sponsor della firma da parte di Beirut dell’accordo sul confine marittimo con Israele, che promette al Libano la possibilità di sfruttare i giacimenti di gas nel Mediterraneo orientale, un’intesa che la guerra metterebbe subito in discussione.
Ad ogni modo, tutte queste considerazioni sfidano l’agenda politica ufficiale del movimento. Dopo i primi bombardamenti israeliani a Gaza, che hanno già causato migliaia di morti tra i civili della striscia, fu il vice di Nasrallah, Naim Qassem, ad annunciare che Hezbollah era «preparata e pronta» a combattere. In seguito, il suo leader Nasrallah ha confermato che il gruppo si considera già in guerra con Israele, biasimando lo Stato ebraico e gli Stati Uniti per lo scoppio del conflitto ed elogiando «i movimenti di resistenza» che «hanno attaccato e continueranno ad attaccare le forze americane in Iraq e Siria». Al contempo però, minacciando gli Usa, ha sottolineato che non è ancora scoppiata «una guerra totale» nella regione. Insomma, il secondo fronte con il Libano è già aperto ma, per interesse di tutte le parti, sembra un conflitto a bassa intensità. Per ora.
Leggi l'articolo originale su TPI.it