“La polizia mi torturò per estorcermi una falsa confessione e, dopo aver coperto di olio le mie mani, le appoggiarono sulle pareti della stanza dove era avvenuto il triplice omicidio. Avevano così ottenuto anche le mie impronte sul luogo del delitto, ma sono innocente”.
Aveva quindici anni quando lo hanno condannato a morte. Era il 13 aprile del 1993. Da quel giorno in poi, Aftab Bahadur ha passato 22 anni della sua vita rinchiuso nel carcere di Kot Lakhpat a Lahore, in Pakistan.
Aftab è stato impiccato mercoledì 10 giugno del 2015. Dal 2000 il governo pakistano ha alzato a 18 anni l’età minima per le condanne a morte. All’epoca della sentenza di Aftab, era ancora legale condannare un minore.
Aftab era un cristiano e lavorava come apprendista idraulico. Fu accusato di essere il complice di un omicidio, anche se non c’erano testimoni.
Aftab sosteneva che al momento dell’arresto la polizia gli avesse chiesto 50mila rupie pakistane (circa 435 euro) in cambio della libertà, una somma che lui non possedeva. Gli era stato assegnato un avvocato di stato che non aveva trovato alcuna prova o alcun testimone in sua difesa.
Secondo un rapporto di Amnesty International, gli avvocati di stato in Pakistan sono spesso poco preparati e poco pagati, e tendono a non difendere i propri clienti con il vigore necessario, a meno che non ricevano ulteriori pagamenti dagli imputati o dalle loro famiglie.
Forse Aftab è morto perché era povero. Forse perché era cristiano. Forse perché era veramente ritenuto colpevole di triplice omicidio. Fatto sta che lo hanno condannato a passare oltre metà della sua vita in una cella, dall’interno della quale, qualche giorno prima della sua esecuzione, Aftab ha scritto questa lettera aperta:
Ho appena ricevuto la notizia della mia esecuzione: sarò impiccato a morte mercoledì 10 giugno 2015. Io sono innocente, ma non credo che questo farà alcuna differenza.
Negli ultimi 22 anni di prigionia, mi è stato detto varie volte che sarei stato impiccato. È strano, ma non so nemmeno dirvi quante volte mi è stato detto che stavo per morire. Ovviamente fa male ogni volta.
Comincio il conto alla rovescia, che già è doloroso di per sé, per poi realizzare che i miei nervi sono incatenati nello stesso modo in cui lo è il mio corpo. In realtà, io muoio molte volte prima della mia morte.
Suppongo che la mia esperienza di vita sia diversa da quella della maggior parte delle persone, ma dubito che ci sia qualcosa di peggio di sapere che stai per morire e aspettare quel momento seduto in una cella.
Per molti anni – da quando ne avevo solo 15 – sono stato abbandonato in un limbo tra la vita e la morte, con totale incertezza sul mio futuro.
Io sono cristiano e, a volte, è difficile esserlo qui. Purtroppo, c’è un prigioniero in particolare che ha cercato di rendere la nostra vita più difficile. Non so perché lo fa.
Sono rimasto molto turbato per i recenti bombardamenti dei cristiani a Peshawar. Mi hanno ferito profondamente. Vorrei che la gente del Pakistan possedesse un senso di cittadinanza che riuscisse a superare il loro settarismo.
C’è un piccolo gruppo di cristiani qui, appena quattro o cinque persone, e ora siamo tutti chiusi in un’unica cella, il che ha migliorato la mia vita.
Faccio qualsiasi cosa pur di evadere dalla mia miseria. Sono un amante dell’arte. Ero un artista – uno qualunque – già da piccolo, prima ancora di essere consapevole di qualsiasi cosa.
Anche allora, ero propenso alla pittura, così come a scrivere versi. Non avevo nessun tipo di formazione artistica, era semplicemente un dono di Dio.
Ma dopo esser stato portato in prigione, non avevo nessun altro modo per poter esprimere i miei sentimenti, visto che ero in un completo stato di alienazione e solitudine.
Qualche tempo fa ho iniziato a dipingere tutti i segnali affissi nel carcere di Kot Lakhpat, dove sono rinchiuso. Poi mi è stato chiesto di fare quelli per altri carceri.
Niente al mondo mi può dare più gioia di quello che provo quando dipingo un’idea o una sensazione sulla tela. È la mia vita e sono felice di farlo. Ho tanto lavoro e sono esausto alla fine della giornata, ma ne sono contento perché tutto questo tiene la mia mente lontana da altri pensieri.
Non ho famiglia che possa venire a trovarmi, quindi, quando viene qualcuno, è un’esperienza meravigliosa. Mi permette di raccogliere idee dal mondo esterno, che posso poi riversare sulla mia tela.
Quando mi è stato chiesto come sono stato torturato dalla polizia, mi sono tornati in mente alcuni ricordi terribili che ho trasformato in quadri. Forse, tuttavia, sarebbe stato meglio non dover ricordare cosa mi avevano fatto per estorcermi quella falsa confessione.
Quando nel dicembre del 2014 abbiamo sentito la notizia che il governo avrebbe rimosso la sospensione della pena di morte, le celle di questo carcere si sono riempite di paura.
C’era una sensazione generale di terrore. L’atmosfera cupa circondava tutti noi. Poi le esecuzioni sono cominciate per davvero al carcere di Kot Lakhpat, e tutti hanno cominciato a vivere in uno stato di tortura mentale.
Quelli che stavano impiccando erano stati nostri compagni per tanti anni, in questa strada verso la morte, ed è naturale che la loro morte ci abbia lasciati in uno stato di disperazione.
La sospensione della pena di morte era stata annullata con il pretesto di uccidere i terroristi, ma la maggior parte delle persone qui a Kot Lakhpat è accusata di crimini meno gravi.
Non so come uccidere queste persone possa mettere fine alla violenza settaria in Pakistan. Spero di non morire mercoledì, ma non ho soldi e posso affidarmi solo a Dio e agli avvocati che fanno volontariato. Non ho perso la speranza anche se la notte è molto buia.
Aftab Bahadur
La lettera è stata originariamente scritta in Urdu e tradotta in inglese da Reprieve.