Ramy è un giovane palestinese di 29 anni. La sua vita si svolge a Gaza, nella parte est della città. Il suo lavoro è quello di insegnante, ma Ramy ogni giorno trova il tempo per scrivere e raccontare quello che accade nella striscia di Gaza, in quel territorio confinante con Israele ed Egitto e che soffre una condizione di incertezza perenne.
La regione, rivendicata dai palestinesi, assieme alla Cisgiordania e a Gerusalemme est, come parte dello Stato di Palestina, è attualmente governata dal movimento Hamas per conto del governo palestinese, ma è considerata territorio occupato da Israele che opera un blocco su tutte le sue frontiere.
La striscia di Gaza è così al centro di un conflitto israelo-palestinese che ha avuto conseguenze devastanti per gli abitanti di quella terra.
Ramy scrive, fotografa, appunta e prende contatti col mondo per far sapere, anche quando l’attenzione internazionale cala, che in quel territorio si soffre, si sta male, si porta avanti una vita-non-vita che tenta di andare avanti, ma muore lentamente.
Nella lettera che il maestro elementare ha inviato a TPI – pubblicata su alcuni blog italiani e che riportiamo di seguito – Ramy sfoga tutta la sua frustrazione per le sofferenze che vive ogni giorno a Gaza.
“È difficile descrivere ed esprimere il significato di un’esistenza vissuta in una tomba a cielo aperto, perché il mondo concepisce le tombe solo per coloro che sono morti. Ma il mondo non sa che esiste anche una tomba per chi ancora è in vita ma ha perso il proprio diritto a vivere come un essere umano.
Una tomba ancora più brutale di un carcere perché al prigioniero vengono negati tutti i suoi diritti umani. Dal più semplice, come il diritto di vivere in libertà o di spostarsi da un luogo all’altro, ai più articolati, come il diritto di rivolgersi a un medico, il diritto di scegliere dove vivere, in quale università studiare, il diritto di vivere con dignità, il diritto al lavoro e al matrimonio.
Questa tomba è delimitata in ogni suo lato da pareti di dolore e strumenti che conducono a una morte lenta. Si vive così, circondati dal mondo del silenzio. La sofferenza e la sensazione di isolamento e solitudine sono i peggiori strumenti di tortura e dolore, perché siamo costretti ad andare d’accordo con i nostri morti anche se siamo ancora vivi.
Infine, veniamo privati anche del diritto di vivere e di capire cosa significhi davvero la vita: senza energia elettrica, senza acqua potabile, senza un rifugio, senza lavoro, senza poter viaggiare, senza poter vivere con la propria famiglia senza perderli a causa dei conflitti e dell’assedio soffocante.
Quando si vive in queste brutali condizioni, affrontando ogni giorno una tortura lenta e silenziosa, si è costretti ad andare d’accordo con le tenebre, a vivere al buio come se fossimo ciechi. Potrei urlare il mio dolore in silenzio, come se fossi nato muto, perché il dolore ha strappato via la nostra voce con urla che non hanno eco.
Così svaniscono le nostre anime, come le foglie sparse dall’autunno. Si impara a piangere senza lacrime.
Il silenzio diventa una medicina mortale perché nessuno vuole sentire la tua voce, il mondo non ti considera come un essere umano.
Ma anche i prigionieri dovrebbero avere questo diritto e anche loro dovrebbero poter trovare ascolto alle loro voci, poter parlare di loro o chiedere quando saranno liberati da questa prigione. Il mondo dovrebbe considerarli come esseri umani e non dimenticarli. Invece i prigionieri muoiono lentamente e in silenzio, vittime della peggiore esecuzione, la loro anima soffoca ogni momento tra le mura di questa tomba e la loro voce si esaurirà con urla e pianti di dolore e sofferenza, senza comunque trovare ascolto né energia per resistere.
Con queste parole voglio ricordare al nostro mondo che vivo in uno dei suoi luoghi più dimenticati: Gaza.
Silenziosa, sì, perché il mondo non vuole sentire le voci sepolte nel cimitero di Gaza, il mondo non concede a quegli esseri umani l’opportunità di provare la sensazione di sentirsi davvero vivi e abitanti di questo mondo.
Forse sono più fortunato di altri perché sono riuscito a trovare un modo per tradurre e descrivere quello che ho passato e sofferto, questa esperienza crudele e orribile che prende forma con la scrittura.
La scrittura è il mio modo per rompere le pareti silenziose di questa tomba e avere una fonte di speranza che mi darà l’energia per resistere, per rimanere in vita nonostante questa condanna a una morte lenta.
Scrivere è anche l’unico modo per rompere i muri di silenzio, per gridare al mondo cosa significa vivere come un essere umano senza diritti umani, circondato dall’oscurità, dal dolore, senza poter urlare per esprimere ciò che si sente.
Infine, vorrei la possibilità di esprimere me stesso come sono: un essere umano che vive in questo mondo, a prescindere dai limiti imposti dalle differenze di credo, razza, colore e luogo, perché alla fine siamo tutti solo esseri umani”.