“Se leggerai questa lettera, di qualunque genere tu sia e in qualunque paese tu ti trovi: io mi chiamo Jalal El Behety, ho 28 anni. Sono stato incarcerato perché scrivo poesie. Sono stato messo dinanzi a dei giudici che dovrebbero occuparsi di giudicare terroristi, ladri e stupratori e non scrittori, poeti e drammaturghi”.
“Sono felice nello scrivere questa lettera e nell’immaginare che verrà letta da un umano, al di fuori di questa prigione malinconica. A quell’umano cui vorrei dire che ho bisogno di qualcuno che mi ricordi nelle sue preghiere e nelle sue invocazioni”.
Questi sono alcuni passaggi della lettera scritta in carcere da Jalal ( o Galal) El-Behairy, poeta, paroliere e attivista egiziano attualmente in prigione, e che TPI ha ricevuto in esclusiva.
Nel corso della sua carriera, Galal ha impiegato la sua voce artistica come mezzo non-violento. Attraverso il suo lavoro ha sollevato questioni delicate sui diritti delle donne, la libertà di espressione e gli sforzi dei cittadini egiziani per realizzare la loro idea di governo.
Oggi Galal si trova in prigione, con l’accusa falsa di appartenere a un gruppo terroristico e di diffondere false informazioni. L’artista ha scritto molti testi per il cantante Ramy Essam, tra cui uno dei suoi più grandi successi “Segn Bel Alwan“. Proprio le sue canzoni e le sue poesie lo hanno portato a essere detenuto, torturato e imprigionato ingiustamente per diversi mesi in attesa di un’accusa di tribunale.
La poesia di Galal si rifà ai canti dei manifestanti che sfidano i regimi autoritari e ai testi delle canzoni eseguite durante la primavera araba del 2011 e dopo.
Le sue poesie e canzoni trattano i rischi che gli artisti subiscono all’interno di uno stato che tenta costantemente di reprimere le voci di dissenso attraverso la censura e la reclusione.
Secondo le organizzazioni non governative locali, la media delle sparizioni forzate in Egitto è di 3-4 al giorno. Di solito, agenti dell’Nsa (i servizi segreti egiziani) pesantemente armati fanno irruzione nelle abitazioni private, portano via le persone e le trattengono anche per mesi, spesso ammanettate e bendate per l’intero periodo.
Galal è solo uno delle migliaia di egiziani che sono stati ingiustamente incarcerati in Egitto e che oggi si trovano a scontare una pena con false accuse. Secondo un rapporto di Amnesty International, tra il 2013, anno del golpe militare, e il 2014 le forze di sicurezza hanno arrestato quasi 22mila persone.
Nel 2015, secondo il ministero dell’Interno, sono finite in manette quasi 12mila ulteriori sospetti. Tra loro studenti, accademici, ingegneri, medici professionisti.
Altre centinaia sono detenute in attesa di esecuzione, tra cui l’ex presidente Mohamed Morsi, i suoi sostenitori e i leader dei Fratelli musulmani. In totale quindi ufficialmente i prigionieri politici sono 34mila.
Di seguito la lettera integrale:
Appendere sulla parete del carcere la foto rubata di una luna, nascondere una lettera di tua madre tra le pieghe della biancheria intima, e una bambola di pezza di scarsa qualità che diventa il tuo migliore amico.
Qui diventi un figlio disabile non in grado di aiutare i tuoi genitori ma un peso in più quando dovresti essere tu a proteggerli. Diventi un vegetale le cui azioni sono limitate al dormire, mangiare e andare in bagno. Svolgere qualsiasi altra azione diventa un’eccezione, un’azione tanto desiderata. Questo significa essere prigionieri. Smetti di vivere.
Vieni incarcerato per una canzone o per un’interpretazione errata che hanno attribuito al titolo del tuo ultimo libro. Vieni descritto come un terrorista, nemico del tuo paese e un irrispettoso verso la tua religione. Vieni classificato come omosessuale, traditore, un essere disgustoso e un pericolo per la pubblica sicurezza.
Questo significa essere uno scrittore e un poeta e non un animale addomesticato che non riesce a rimanere in silenzio e neutrale quando la neutralità non può essere una scelta.
Amici miei, dopo otto mesi senza vita, vi scrivo con tutta la sincerità che ho e la nostalgia dalla mia piccola cella, dentro una grande prigione, all’interno di un carcere ancora più grande.
Non vi scrivo per lamentarmi della violazione dei diritti o per condizioni critiche della mia salute. Io sono tra i più fortunati qui dentro perché non ho sofferto di questo. Vi scrivo perché vorrei sfogarmi e condividere con voi tutto ciò. Oppure perché la mia scrittura viene dalla necessità impellente di trovare una connessione umana dopo aver fallito la mia comunicazione con la mia bambola di pezza, incapace di comprendere quello che sto attraversando e le mie lunghe e continue notti piene di frustrazioni.
Non voglio fare il drammatico, non sono né il primo né l’ultimo prigioniero.
Tutto quello che vorrei è riuscire a comunicare con qualsiasi essere umano al di fuori di qui. Quando vedi davanti a te 36 mesi di ingiusta prigionia non trovi niente di folle nel creare una maledetta bambola di pezza a cui dai il nome di “Felice”.
Sicuramente sono felice nello scrivere questa lettera e nell’immaginare che verrà letta da un umano, al di fuori di questa prigione malinconica, a cui vorrei dire che ho bisogno di qualcuno che mi ricordi nelle sue preghiere e nelle sue invocazioni.
Se leggerai questa lettera, di qualunque genere tu sia e in qualunque paese tu ti trovi: Io mi chiamo Jalal El Behety, ho ventotto anni. Sono stato incarcerato perché scrivo poesie. Sono stato messo dinanzi a dei giudici che dovrebbero occuparsi di giudicare terroristi, ladri e stupratori e non scrittori, poeti e drammaturghi.
In tutta questa situazione assurda vi mando un bacio rubato, una canzone e vi invito a ballare un giorno in un luogo dove vengono accettate tutte le idee, opinioni e pensieri. Sicuramente quel giorno sarò in compagnia della mia bambola di pezza. Vi saluto e vi saluta a sua volta anche il mio amico di pezza “Felice”.
Jalal Al Behery
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