L’anniversario del 31 Maggio 2013, quando le proteste innescate dal tentativo di distruzione di Gezi Park dilagarono in tutta la Turchia, è trascorso come si temeva.
La repressione violenta delle proteste, l’intrasigenza del premier e gli abusi della polizia antisommosse, tollerate se non persino lodate e premiate, hanno aperto una ferita apparentemente insanabile nel tessuto politico del Paese e messo fine al sogno di un “modello turco” che potesse ispirare le democrazie mediorientali.
La capitale Ankara è molto diversa da Istanbul.
In una città universitaria che accoglie decine di migliaia tra studenti e insegnanti provenienti da tutto il Paese e le sedi del Parlamento e del Governo, è inevitabile che le proteste siano più politicizzate che a Istanbul. Il clima qui è molto più teso.
Ma, in quel pomeriggio del 31 maggio dell’anno scorso, il clima era di festa. Migliaia di persone avevano riempito il piccolo Kugulu Park, il Parco dei Cigni, per far sentire la propria voce, che non vedevano mai riportata nei media principali, appiattiti su posizioni filo-governative.
Non potevano immaginare che poche ore dopo sarebbe iniziato un incubo di gas e repressione che dura ancora oggi.
Un anno dopo, l’anniversario è cominciato allo stesso modo: Kugulu Park si è riempito lentamente di una folla pacifica, mentre da Istanbul arrivavano notizie raccapriccianti, con le violenze di uomini in borghese contro i dimostranti e il corrispondente Ivan Watson della CNN fermato e molestato in diretta dalla polizia.
Ma l’atmosfera era diversa dall’anno scorso: agli alberi erano appesi i ritratti dei morti di questi mesi.
Una mostra fotografica riassumeva le tappe della presa di coscienza di una generazione che veniva definita “apolitica” fino a un anno fa: dopo Gezi, l’uomo in piedi, le scale colorate.
Poi, le proteste per la distruzione della foresta dell’ ODTU, l’Università Tecnica del Medio Oriente, con altri morti; la rivolta degli Alevi di Tuzluçayir contro la costruzione di una moschea sunnita; le proteste contro lo scandalo della corruzione e quelle innescate dai vari “leaks” che ne rivelavano l’entità; le veglie per il quattordicenne Berkin Elvan, colpito da un lacrimogeno, morto dopo nove mesi di coma, attaccate dalla polizia.
E ancora, le proteste dopo le elezioni di Ankara insieme alle clamorose irregolarità; il Primo Maggio, nuovamente vietato nelle piazze centrali, e la recente tragedia di Soma, il disastro nella miniera gestito con scarsa sensibilità dal governo. Addirittura, un consigliere ha preso a calci un parente delle vittime.
Con un collega tedesco, anche lui veterano di questo lunghissimo anno, siamo scesi da Kugulu Park verso il Monumento al Minatore.
Un centinaio di liceali sorvegliati da agenti in borghese rendeva omaggio ai minatori morti, per poi avviarsi verso Kizilay, la piazza centrale di Ankara, interdetta alle manifestazioni. A Kizilay, il 2 giugno 2013, Ethem Sarisuluk fu colpito alla testa dal colpo di pistola di un agente.
Non siamo riusciti a raggiungerla: prima che i dimostranti di Kugulu Park potessero avvicinarsi, quelli delle zone più popolari erano stati respinti dai TOMA, i cannoni ad acqua, e ora lanciavano fuochi d’artificio contro la polizia.
Perso di vista il collega tedesco, indossati maschera antigas ed elmetto, ho raggiunto i colleghi turchi.
La strada era un campo di battaglia dove il gas lacrimogeno si mescolava al fumo dei fuochi d’artificio. Per più di un’ora i dimostranti hanno tenuto testa alla polizia, biglie e sassi contro proiettili di plastica carichi di polvere urticante. I TOMA cercavano di colpire i gruppi più folti con acqua mescolata a gas al peperoncino. Ho scattato una foto di un dimostrante che scappava dai lacrimogeni che gli avevano puntato contro, poi con altri colleghi abbiamo aiutato una passante. A quel punto qualcosa mi ha colpito.
Mi sono piegato, ho creduto ad una pietra (ho creduto di essere stato colpito da una pietra?). Poi mi sono accorto che la maglietta bruciava, un candelotto lacrimogeno mi aveva preso in pieno alle costole ed era rimasto impigliato tra le cinghie delle borse.
Due colleghi e un dimostrante mascherato mi hanno portato al riparo, e da lì in quello che aveva tutta l’aria di essere un posto di soccorso clandestino: una recente legge vieta il pronto soccorso fuori da strutture autorizzate.
Esclusi pericoli immediati, e con una medicazione d’emergenza, ho twittato di stare bene: avevo visto colleghi che mi fotografavano a terra, sapevo che la notizia sarebbe dilagata.
Con un collega che ha interrotto il lavoro per aiutarmi abbiamo raggiunto un ospedale, ma abbiamo dovuto rimettere le maschere: la strada era invasa dal gas.
Poi è arrivata la telefonata di Marta Ottaviani da Istanbul: è stata la prima di una serie infinita, comprese quelle dell’Unità di Crisi dell’Ambasciata, che non avevo fatto in tempo ad avvisare, e quella personale dell’Ambasciatore Scarante. Le espressioni di solidarietà sono state tante e non riuscirò mai a ringraziare tutti quanti.
Intanto la protesta continuava. Settantasei persone sono state arrestate solo ad Ankara, tra cui quattro medici accusati di aver prestato soccorso, molti feriti.
Alla vigilia di una campagna elettorale cruciale, la Turchia non vede la luce in fondo al tunnel di polarizzazione e divisioni in cui è precipitata.
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