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    Cambogia, due ex leader dei Khmer rossi sono stati condannati all’ergastolo per genocidio

    L'ex capo di stato cambogiano Khieu Samphan durante il processo. Credit NHET SOK HENG / AFP)

    È la terza condanna comminata dal tribunale speciale istitutito da Onu e giustizia cambogiana per processare i membri ancora in vita del regime di Pol Pot

    Di Luca Serafini
    Pubblicato il 16 Nov. 2018 alle 07:29 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 16:19

    In Cambogia, i due più anziani leader dei Khmer rossi ancora in vita sono stati riconosciuti colpevoli di genocidio, a quasi 40 anni dalla caduta del brutale regime comunista di Pol Pot.

    Il verdetto è stato seguito con trepidazione da milioni di cambogiani. Nuon Chea, 92 anni, e Khieu Samphan, 87 anni, che ha servito come capo di stato, sono stati entrambi condannati all’ergastolo per il genocidio perpetrato tra il 1977 e il 1979.

    In quanto figure di spicco del regime Khmer, la corte ha dichiarato entrambi gli uomini responsabili di omicidio, sterminio, asservimento, incarcerazione, tortura, persecuzione per motivi religiosi e politici e stupri di massa attraverso la politica dei matrimoni forzati.

    Nuon Chea è stato riconosciuto colpevole di tutte le accuse di genocidio di vietnamiti, ex funzionari della Repubblica Khmer e della minoranza musulmana dei Cham. Khieu Samphan è stato dichiarato colpevole del genocidio dei vietnamiti, non dello sterminio dei Cham.

    Al momento della sentenza, l’aula del tribunale era gremita di famiglie di alcuni degli 1,7 milioni di cambogiani morti tra il 1975 e il 1979.

    I due imputati non hanno negato il loro ruolo nel regime comunista dei Khmer rossi, ma si sono dichiarati non responsabili per il crimine di genocidio.

    Nel 1997 l’Onu e la giustizia cambogiana hanno istituito con uno sforzo congiunto un tribunale speciale per processare i membri più anziani dei Khmer Rossi. Ci sono voluti nove anni per portare il primo caso a giudizio. La maggior parte dei responsabili delle uccisioni, tra cui Pol Pot, è morta prima di poter essere processata.

    La prima condanna all’ergastolo fu comminata a Kaing Guek Eav, noto come “compagno Duch”, che gestiva il campo di concentramento S-21 a Phnom Penh, dove almeno 14mila persone furono torturate e uccise.

    Il regime di Pol Pot 

    Dopo aver sconfitto il governo di Lon Nol, imposto con la forza dagli americani nel 1970, i Khmer rossi perseguirono una politica di annientamento della popolazione in nome di un ordine nuovo basato sulla collettivizzazione dell’agricoltura, prevalentemente riso, e su un uso ridottissimo dell’industria.

    Per questi motivi, gli abitanti delle città vennero fatti spostare dai centri urbani alle regioni di campagna e messi a lavorare in immense risaie che successivamente si rivelarono completamente inutili; gli elementi ostili all’ideologia comunista (principalmente gli intellettuali) furono subito ammazzati e venne istituito un vero proprio lager nel pieno centro di Phnom Penh, il cosiddetto ufficio di sicurezza S-21, in cui si stima abbiano perso la vita almeno 20.000 persone.

    Nel 1979, anno della sconfitta dei Khmer rossi da parte dei loro nemici vietnamiti, il bilancio finale dei morti lasciò letteralmente a bocca aperta il mondo intero: due milioni di cambogiani, il che vuol dire un quarto dell’intera popolazione dell’epoca, persero la vita a causa della politica di Pol Pot.

    Quando le frontiere del Paese vennero aperte all’esterno, campi pieni di teschi e resti umani diedero il benvenuto ai giornalisti venuti a verificare di persona, dopo quattro anni di silenzio, se le voci su uno dei regimi comunisti più brutali della storia fossero effettivamente vere.

    Tra questi era presente anche il giornalista italiano Tiziano Terzani che, in un’intervista rilasciata alla Rai nel 1985, offrì una chiara testimonianza del massacro compiuto dai Khmer rossi: «Sono ritornato in Cambogia nel 1980. […] Fu un’esperienza drammaticissima perché fino ad allora avevo vissuto, attraverso la storia dei rifugiati lungo la frontiera, la tragedia cambogiana, ma solo nei racconti.

    E devo dire che anche ad immaginarsi l’orrore, la fantasia non riesce mai a cogliere quel tanto di orrore che c’era invece nella realtà cambogiana. Uno si può immaginare i massacri, le fosse comuni, si può immaginare migliaia e migliaia di persone morte; ma se le metti in fila, quelle persone morte, se le vedi, queste ossa, sono tante di più di quelle che uno si può immaginare».

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