Le donne che ricoprono incarichi di primo piano nel mondo della politica sono sempre di più: dalla signora Merkel a Hillary Clinton, da Christine Lagarde a Dilma Rousseff. Nei primi anni Novanta di premier al femminile se ne contavano solo quattordici; nel decennio successivo, dal 2000 al 2010, la cifra si è più che raddoppiata e le donne al potere sono diventate 35. Così oggi, all’attivo, sono ventuno tra prime ministre e presidentesse nel mondo. Dal 1995 il numero ha raggiunto, in proporzione globale, una crescita pari al 7 per cento. Per Unifem, il Fondo delle Nazioni Unite per le Donne, la presenza femminile nei Parlamenti è passata dal 11,7 per cento del 1997 al 19,3 del 2011.
Che questi numeri non significassero molto lo si era in verità capito fin da principio, da quando cioè l’ascesa delle donne in politica nell’ultimo decennio aveva solo parzialmente stravolto l’immaginario tradizionale con cui ogni osservatore era solito identificare i margini di inserimento del genere femminile ai vertici del potere. Questi, tuttavia, rivelano qualcosa di ben più significativo e contengono i dati essenziali per comprendere la situazione: dimostrano cioè che se da un lato l’ascesa delle donne è il mero risultato di una crescente emancipazione femminile, dall’altro l’imposizione di quote e numeri che garantiscono l’accesso all’interno degli organi istituzionali e il graduale inserimento nel mondo del lavoro, indica un preciso trend in evoluzione. In tempi di crisi, le minoranze emergono; più la crisi s’intensifica, più acquistano spazio e, in ultima analisi, potere. Sia chiaro: la coincidenza di questa equazione tra tempi di crisi e minoranze alla ribalta esclude in toto un qualsivoglia ragionamento sociale e generale; piuttosto, è contenuto implicito ma fortissimo il concetto di minoranza all’interno degli organi istituzionali e quindi già presente nella grande macchina del potere.
La questione tra le varie parti in gioco è certamente diversa, ma il discorso di fondo è sempre lo stesso. Si prendano in considerazione i dati di Unifem di cui sopra. Certo: un crescente affrancamento del genere femminile ha indubbiamente contribuito all’incremento delle donne ai vertici del potere. Eppure, bisogna tener conto di un altro elemento indotto che ha consentito alle donne l’ingresso tra gli alti ranghi del potere: il grado di parentela che lega ex presidenti, leader e dissidenti politici alle loro rispettive figlie, sorelle e nipoti. Appartengono a quest’ultima categoria in particolare le premier politiche del sudest asiatico, dove retaggi culturali e la presenza di integralismo religioso limitano fortemente l’inserimento della donna nella società.
Ed è forse proprio per questo che in quel contesto attecchisce maggiormente la successione ereditaria della politica. È il caso di Yingluck Shinawatra, prima donna a capo della Thailandia nonché sorella minore dell’ex premier Thaksin, deposto con un golpe militare nel 2006; o del Bangladesh, dove da vent’anni a questa parte dominano due donne: Khaled Zia e Sheikh Hasina, attuale primo ministro. Entrambe imparentate con gli ex presidenti Ziaur e Mujibar Raham. Dopotutto anche la Iron Lady delle Filippine, Corazon Aquino, passata alla storia come la prima donna capace di abbattere il regime Marcos nel 1986, era la vedova di Benny Aquino. La lista continua e sarebbe lunghissima: da Aung San Suu Kyi a Dariga Nazarbayeva, passando per Benazir Bhutto, la prima donna pachistana a capo di un Paese musulmano, Cristina de Kirchner e Park Geun-hye in Corea del Sud. Tutte quante privilegiate dalla politica dinastica dei loro congiunti.
Ma nei Paesi occidentali il peso delle famiglie sfuma o scompare del tutto. Sono self-made women il primo ministro australiano Julia Gillard, la brasiliana Dilma Rousseff e la signora più potente al mondo, Angela Merkel. Vale lo stesso discorso per cinque Paesi dell’Europa dell’Est – Bosnia-Herzegovina, Croazia, Slovacchia, Lituania e Lettonia – così come per la Finlandia, l’Islanda e l’Ucraina: tutti hanno recentemente avuto una donna premier. Anche in Occidente, quindi, le presenze femminili sono in aumento. In politica come in economia. Il nord Europa registra un aumento in Parlamento del 42 per cento; l’America del 20 per cento. Solo i Paesi arabi restano indietro (11 per cento).
Che le donne non siano una minoranza nella società è una verità assoluta, ma che esse lo siano all’interno dei grandi organi esecutivi è un dato di fatto. A ciò, da tempo, si è voluto rimediare in diverse maniere. Le quota rosa, un compromesso quantomeno controverso che mette in dubbio il principio stesso della parità uomo-donna e la natura meritocratica con cui si viene eletti, sono il più classico degli esempi. Ebbene, al di là di tutto, perché gli uomini davanti alla crisi cedono il potere alle donne? E, qualora questo fosse effettivamente vero, il trend in forte crescita degli ultimi vent’anni è solo un caso oppure una tesi ben radicata? Un’ipotetica risposta a tutto ciò potrebbe suonare più o meno così: la ricerca di un cambiamento all’interno della classe dirigenziale, conferito dall’alto e a favore delle minoranze presenti all’interno degli organi istituzionali, sembra rivelare come il tradizionalismo classico voglia imporsi nuovamente al potere con la certezza di aver agito nel giusto; di aver legittimamente dato adito cioè a un rinnovamento di quelle stesse minoranze e che abbia tuttavia anch’esso sancito risultati fallimentari.
Senza dubbio, dunque, le crisi accelerano i cambiamenti di classe dirigente. E spesso privilegiano chi dalla gestione del potere è stato escluso. A volte però viene il dubbio che questo passaggio avvenga quando l’entità dei problemi è tale da essere irrisolvibile, per facilitare poi il rientro delle stesse élite che hanno avuto in mano il potere fino a un attimo prima.
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