Benvenuti a Şanlıurfa, il capoluogo della provincia turca con il maggior numero di profughi nel paese insieme a quella di Istanbul. Sono 400mila i siriani che si sono rifugiati qui e, guardando la mappa, si capisce perché. In una quarantina di minuti di macchina si possono raggiungere il confine e le città di frontiera, come Kobane. Proprio dalla zona di Kobane è arrivata l’ondata di rifugiati più significativa durante l’assedio di Daesh, il nome arabo dell’Isis, a partire dagli ultimi mesi del 2014.
Per strada TPI incontra Mohammed, sedici anni, che abitava in un villaggio vicino a Kobane. Ora è solo, traumatizzato dalle atrocità che si è lasciato alle spalle, e sostiene che fra un mese andrà in Francia. “Ma ora scusami, devo tornare al lavoro”, dice quando si dilegua verso il mercato.
Vulgata vuole che Şanlıurfa sia la capitale dello Stato islamico in Turchia, laddove nella città di Gaziantep si nasconderebbero i quadri esiliati dell’Esercito Libero Siriano e nella provincia di Hatay gli uomini di Al Nusra. Sempre guardando la mappa, si capisce perché.
Al-Raqqa, la capitale di Daesh in Siria, dista poco più di un’ora di macchina da Şanlıurfa una volta superata la frontiera siriana. Abu Abdallah Guitone, un noto jihadista franco-marocchino, veniva qui con i suoi amici a mangiare Kebab prima che i controlli al confine divenissero più stringenti. Molti foreign fighters passano da Şanlıurfa sulla via per la Siria.
Sopra: Şanlıurfa è considerata la cittadina natale di Abramo, è infatti gemellata con Hebron in Palestina dove si trova la tomba del profeta. Queste piscine ricordano un miracolo di cui sarebbe stato protagonista.
La città, che non dista molto nemmeno da Diyarbakir, il principale centro abitato curdo del paese, vive soprattutto nel suo Bazaar. Colpisce immediatamente come il mercato – una festa di spezie, colori, pistacchi e prodotti delle zone rurali – sia gestito principalmente da bambini.
Ad occhio, e chiedendo l’età ad alcuni di loro, l’impressione è che la maggior parte abbiano un’età compresa fra i cinque e i dieci anni. Siriani e turchi. Cucinano, vendono, aprono e chiudono i negozi, assistono fabbri e falegnami nelle loro botteghe vecchio stile del Bazaar.
In Turchia è proibito lavorare sotto i 15 anni, ma il governo ha sviluppato una tolleranza pressoché totale per il fenomeno del lavoro minorile. La metà degli oltre tre milioni di rifugiati siriani sono di età inferiore ai 18 anni, e secondo l’Unicef, l’agenzia delle Nazioni Unite per l’infanzia, sarebbe mezzo milione i bambini che non frequentano alcun istituto in piena età scolare. I minori fra i sei e gli undici anni che abitano fuori dai campi molto raramente vanno a scuola. Si tratta soltanto del 15 per cento secondo l’Autorità turca per i disastri e le emergenze.
Ovviamente il lavoro minorile è l’altra faccia della medaglia. A Şanlıurfa, dicono dati raccolti dall’ong Support to Life, fra il 70 e l’80 per cento dei bambini siriani lavorano almeno sei giorni a settimana e il 90 per cento lavora più di otto ore al giorno. Circa un terzo di loro riceve maltrattamenti sul posto di lavoro.
Le famiglie siriane rispondono piccate agli operatori umanitari che cercano di affrontare il problema, racconta Volkan Pirinççi dell’ong Support to Life a TPI. “Se mi pagate voi l’affitto di casa, se provvedete voi alla spesa, allora sarò ben felice di non mandare mio figlio al mercato”.
Ma il problema non tocca solo i siriani: già nel 2012, quando il numero di profughi non era paragonabile a quello che oggi fa della Turchia lo stato con il più alto numero di rifugiati al mondo, nel paese lavoravano un milione di bambini fra i sei e i diciassette anni. Molti di loro nel settore tessile, dove in particolare nella zona di Istanbul si stanno inserendo anche i siriani, abbattendo ulteriormente salari già molto bassi.
“Ormai per noi è impossibile distinguere chi siano i siriani e chi siano i turchi al mercato”, dice un altro operatore umanitario che si occupa di lavoro minorile a Sanilurfa. “I siriani sono arrivati molto presto e hanno imparato il turco, perlomeno le parole che gli sono utili. E i turchi solitamente sanno anche un po’ di arabo”.
Le organizzazioni umanitarie, da quelle indipendenti a quelle legate alle Nazioni Unite, hanno le mani legate sulla questione del lavoro minorile. Troppo importanti i rapporti con il governo, che per motivi d’immagine non vuole che la questione venga troppo sbandierata. Questo tema, oltre a quello delle spose bambine che si incontrano molto facilmente anche nella regione di Sanilurfa, viene sminuito nei documenti rivolti ai donatori, in quelli di dominio pubblico, così come nei piani di azione inter-istituzionali.
“È impossibile mantenere libertà d’azione nel paese e fare campagna contro lavoro minorile e spose bambine allo stesso tempo”, spiega un operatore umanitario. “È un equilibrio molto delicato”.
Al mercato di Şanlıurfa i bambini continueranno a lavorare, mentre le organizzazioni internazionali continueranno a nascondere la polvere sotto il tappeto. Con il timore che molto presto, se dovesse davvero partire l’operazione su Raqqa, una nuova ondata di profughi provenienti dalla capitale del sedicente Stato Islamico irrompa nella provincia spezzando i delicati equilibri di convivenza fra turchi e siriani.
*Foto credit: Davide Lerner