A due anni dalla Primavera araba l’Egitto è ancora nel pieno di un’ondata di violenza partita dalla rivoluzione del 2011. Una delle principali sfide affrontate dal governo di Mohamed Morsi, insediatosi nel 2012, è il contenimento dell’epidemia criminale seguita alla fine del regime di Hosni Mubarak e favorita sia dal vicino conflitto libico che dalla crescente disoccupazione.
Il Financial Times ha ottenuto dal ministero dell’Interno egiziano dati preoccupanti relativi al proliferare delle attività criminali più disparate negli ultimi due anni: dal 2010 al 2012 gli omicidi sono triplicati da 774 a 2.144, considerando anche chi ha perso la vita durante le frequenti proteste, mentre i rapimenti di persona sono quadruplicati da 107 a 412, anche se negli ultimi mesi questo tipo di reati si è fatto più raro. I furti nelle abitazioni sono aumentati del 59 per cento da 7.368 a 11.699, i furti di auto sono cresciuti di quattro volte da 4.973 a 21.166 e le rapine a mano armata sono cresciute di ben 12 volte da 233 a 2.807.
In generale i reati commessi con armi da fuoco sono aumentati di 3,5 volte dai tempi della rivoluzione. Diverse cause spiegano la parziale anarchia in cui è piombato il Paese. In primo luogo, la polizia nutre di ben poco rispetto tra i cittadini e non riesce ad affermarsi come garante della pubblica sicurezza. La fine del conflitto nella vicina Libia ha favorito l’afflusso di quantità ingenti di armi, provenienti dai depositi del defunto Gheddafi.
Ancora sul fronte interno, una crescita inadeguata non permette all’economia egiziana di assorbire quanti cercano lavoro e la disoccupazione che ne risulta non fa che incentivare la criminalità. Infatti, a fronte di una crescita minima del 7 per cento stimata necessaria per dare un’occupazione agli oltre 700 mila che ogni anno entrano nel mercato del lavoro, nell’ultimo trimestre del 2012 il Pil è solamente cresciuto di un misero 2,2 per cento.