La Turchia che non conosci
Dal salotto buono di Istanbul lo separano un centinaio di metri e un abisso economico. I suoi abitanti sono in maggioranza curdi, rom e transessuali, uniti da redditi bassi frutto di lavori occasionali. Nel cuore di Beyoğlu, centro commerciale e turistico della città, è un’anomalia: da sempre un ghetto per le minoranze, da cui sono passati greci, armeni ed ebrei, prima di diventare a metà degli anni Novanta la casa di migliaia di curdi costretti ad abbandonare i loro villaggi nel sud-est, bruciati dall’esercito turco a caccia di ribelli del Pkk. E oggi, è il quartiere perfetto per un’opera di riqualificazione che però esclude proprio chi lo ha abitato finora. Benvenuti a Tarlabaşı.
Al suo ingresso staziona un blindato, a protezione della stazione di polizia. Non è solo un deterrente: gli scontri tra forze dell’ordine e manifestanti curdi sono frequenti. Pochi metri più giù, nelle strade dissestate che colano a picco verso il Corno d’Oro, c’è il fortino del Bdp, il partito che li rappresenta in Parlamento. Tutt’intorno, palazzi ottomani in disfacimento, addossati l’uno all’altro, e macerie attorno a cui i bambini giocano tra polvere e immondizia. Per decenni è stato questo Tarlabaşı: un’area storica abbandonata, dove la cacciata dei greci dopo i pogrom degli anni Cinquanta lasciato case vuote pronte a essere occupate con il consenso delle autorità.
Poi, qualcosa è cambiato. Nel 2006 il governo di Tayyip Erdoğan lancia un piano per trasformare 20 mila metri quadri in ‘Area di rinnovamento urbano’ sulla base della controversa legge 5366, che permette di aggirare i vincoli urbanistici. È quello che era già accaduto a Sulukule, distretto a ridosso delle mura bizantine. Il copione è sempre lo stesso: il costo delle case (e della vita) nei quartieri riqualificati aumenta, diventando insostenibile per chi ci vive e portando le abitazioni nelle mani di agenzie immobiliari e imprese di costruzione. Gli studiosi la chiamano gentrificazione: rinnovamento delle aree per destinarle ad abitanti nuovi e più ricchi. I progetti di questo tipo nella sola Istanbul sono almeno 50, per un valore di oltre 7,5 miliardi di lire turche (3 miliardi di euro), e dovrebbero rilanciare un settore che comincia a frenare dopo anni di boom.
A Tarlabaşı, però, le cose si complicano. Nel 2007 l’appalto per il rinnovamento di 278 edifici ottomani viene vinto dalla Gap Inşaat, parte della holding Çalık, il cui amministratore delegato è Berat Albayrak, genero del premier Erdoğan. Ma più del conflitto di interessi, a frenarlo è la reazione degli abitanti contro un piano che prevede di cacciarli per far spazio a un centro commerciale, a uffici e a condomini di lusso.
“Nel marzo 2008 si è formata un’associazione di quartiere con l’unione tra i proprietari delle case, timorosi di perderle, e gli affittuari, che combattevano per non essere sfrattati”, racconta Özlem Ünsal, sociologa e ricercatrice alla City University di Londra. Ma la lotta oggi sembra essersi piegata sotto il peso del ricatto economico: “Il profilo della resistenza è cambiato: all’inizio era contro la realizzazione del progetto, adesso contro l’iniqua compensazione economica delle case. Un gioco che ha messo fuori causa le esigenze di chi ci vive”.
Dopo mesi di incertezze, quest’anno le ruspe si sono messe al lavoro. “Le autorità turche devono porre fine agli sfratti forzati che hanno già portato numerose famiglie vulnerabili a restare senza casa”, denuncia Andrew Gardner, ricercatore di Amnesty International. Un fenomeno che riguarda oltre il 70 per cento degli abitanti del quartiere. Per loro, la Toki – l’istituto case popolari – ha pensato a una nuova sistemazione nella periferia in costruzione di Kayabaşı. “Non sono stati informati né consultati, non hanno ricevuto assistenza legale né adeguate alternative abitative o compensazioni economiche”, insiste. “Alla fine, ognuno deve cavarsela da solo”, concorda Ünsal. E il problema non è solo economico: per i transessuali, che a Tarlabaşı hanno creato una comunità e che per lo più lavorano nelle stradine della vita notturna di Beyoğlu, essere accettati altrove è quasi impossibile.
Sotto accusa è finita anche l’assenza di pianificazione urbanistica. Mentre il ‘mini-sindaco’ di Beyoğlu, Ahmet Misbah Demircan, immagina i futuri Champs-Élysées di Istanbul, gli esperti denunciano di non essere neppure stati consultati. Per l’architetto Huseyin Kaptan, direttore del Centro di Pianificazione e Design Urbano, il progetto non prevede un’adeguata tutela dell’eredità di un quartiere la cui crescita abusiva è proseguita anche dopo che era stato dichiarato area di interesse storico e a dispetto dei rischi sismici che incombono su Istanbul. Non a caso, a studiarlo è venuto persino il guru del movimento di ‘ribellione urbana’ David Harvey, professore di antropologia alla City University di New York. Secondo lui, “la cosa peggiore in questo processo è la mancanza di democrazia”.
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