Il discorso di mercoledì 27 aprile di Donald Trump è stato il suo primo interamente dedicato alla politica estera e, non a caso, è stato ospitato dal Center for the National Interest.
Il candidato alle primarie repubblicane si è concentrato su ciò che in tempi forse meno politically correct sarebbe stato definito ‘sacro egoismo’, e che oggi si presenta con un più attraente slogan come è ‘America first‘.
Si parla, naturalmente, dell’interesse nazionale, una costante in verità onnipresente nella politica estera americana, che però non sempre è stata esplicitata e ricalcata come ha fatto ieri Trump.
Questo benché, nella sostanza, non siano poi molti gli elementi di novità introdotti dal tycoon, rivelando una (non troppo) sorprendente continuità con le linee guida del partito repubblicano in politica estera nel corso degli ultimi venti anni, e facendo registrare dunque una certa volontà di inserirsi tra i canonici ranghi dell’establishment in un tema delicato e consolidato come è quello della sicurezza nazionale.
Trump ha fatto propri concetti come unilateralismo, rilancio delle forze militari e prestigio che sono ormai parte integrante, più o meno accentuata, della cultura strategica del Grand Old Party (Gop).
Come da tradizione per gli aspiranti presidenti, inoltre, ha posto molta enfasi sugli insuccessi della grand strategy dell’amministrazione uscente, di cui – ha più volte rimarcato con un occhio a novembre – la Clinton è stata un elemento fondamentale. Obama, ha affermato Trump, ha minato le certezze degli Stati Uniti e li ha indeboliti sia in termini economici che sotto il profilo della sicurezza nazionale.
L’invettiva è chiaramente servita a delineare un pre-2017, contraddistinto da una Casa Bianca incauta e titubante, e un post-2017 di un’eventuale amministrazione Trump, eretto sul recupero della credibilità e del potere americano.
Da notare che, secondo Trump, le radici dei mali degli Stati Uniti non nascono negli anni di Obama, bensì si estendono fino alla conclusione della Guerra Fredda e, guarda caso, sino alla fine del doppio mandato di Reagan, ormai divenuto mito indiscusso per l’elettore medio repubblicano.
Una debolezza, quella americana, che quindi abbraccerebbe anche due altre amministrazioni repubblicane, quelle della famiglia Bush, che nella retorica anti-establishment di Trump rappresenta un elemento negativo per gli Stati Uniti al pari della ‘dinastia’ Clinton.
Se da un lato, perciò, il discorso ha ricalcato posizioni già note al grande pubblico e con una retorica non troppo dissimile da quella di altri candidati del partito repubblicano – si pensi ai toni accesi, ad esempio, di Ted Cruz – dall’altro ha proposto elementi di novità per il Gop e, sorprendentemente, di distacco rispetto al mito della presidenza Reagan.
Anzitutto il rifiuto del globalismo nel suo senso più ampio: l’interdipendenza che lega i più remoti angoli del globo, infatti, appare più come un pericolo che un’opportunità nella percezione del mondo di Trump. In primo luogo nella forma del libero commercio, che ha indebolito e impoverito, a suo dire, anziché rafforzato e arricchito i cittadini statunitensi.
Inoltre Trump, nel rigettare la visione di un paese davvero aperto a persone di qualsivoglia identità, pare rifiutare l’idea stessa alla base dell’American Dream, che per sua natura tende a essere universale e, in teoria, alla portata di tutti.
Rimane d’altronde significativo che Trump non abbia fatto alcuna menzione al muro che ha promesso di costruire al confine col Messico, benché abbia voluto sottolineare quanto sia necessario porre un argine all’immigrazione, in primis dei musulmani, che potrebbe scatenare una seconda San Bernardino o peggio.
Un’ampia riflessione sulla politica estera di Trump richiederebbe, naturalmente, una maggiore profondità. In questa sede, comunque, è utile richiamare quantomeno altre due tematiche toccate dal candidato repubblicano.
La prima è il rapporto con la Cina e la Russia, identificate come le due grandi potenze con cui gli Stati Uniti devono fare i conti nel giocare un ruolo internazionale. In entrambi i casi, Trump ha evidenziato la necessità di relazionarcisi partendo da una posizione di forza e garantendo loro al contempo la possibilità di instaurare una cooperazione e una amicizia durature con l’America.
Una prospettiva, in verità, che non può che richiamare alla mente uno dei cardini della politica estera di Reagan, che distese la mano all’Unione Sovietica pur consapevole dell’importanza di negoziare partendo da una condizione di superiorità relativa.
Cina e Russia, per Trump, paiono comunque centrali per garantire la stabilità del mondo e, dunque, la sua idea è di provare a collaborare con loro e soprattutto con Mosca, con cui Washington condivide la minaccia del terrorismo islamico.
A questo proposito, la seconda questione su cui è utile qui soffermarsi è la postura degli Stati Uniti nei confronti del sedicente Stato islamico, identificato da Trump come una grave minaccia non solo per i cittadini americani ma anche per tutti i cristiani e, nel senso più ampio, per la civiltà occidentale.
La promessa di Trump – benché non abbia specificato con quali strumenti perseguirla – è di azzerare la pericolosità dell’Isis con la massima solerzia e rapidità. Di certo, è una politica che non potrà prescindere, ha affermato, sia dal rinsaldare le alleanze e le amicizie storiche nell’area, cominciando da Israele ed Egitto, sia dal rifiutare l’ascesa dell’Iran a potenza regionale.
Una prospettiva, questa, che avrebbe come fine quello di ribaltare una delle principali linee guida in Medio Oriente dell’amministrazione Obama e che, secondo Trump, sarebbe in grado di restituire all’America quel rispetto e quella credibilità che ha smesso di avere nel contesto internazionale.
— L’analisi è stata pubblicata da ISPI con il titolo “La politica estera di Trump: si scrive ‘America first’ si legge ‘sacro egoismo’” e ripubblicata in accordo su TPI con il consenso dell’autore
*Davide Borsani è ricercatore associato ISPI e assistente docente all’Università Cattolica di Milano
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