La nuova rivoluzione egiziana si tinge di rosso. Del rosso intenso dei cartelli con cui centinaia di migliaia di persone hanno inondato piazza Tahrir e le strade delle principali città del Paese per chiedere le dimissioni del presidente Mohamed Morsi. Era il giorno del ‘Tamarod‘, della ribellione, nel primo anniversario della formazione del governo. Il momento per i cittadini di chiedere conto di un anno di governo dei Fratelli Musulmani.
La manifestazione del “Tamarod” è stata organizzata nell’aprile scorso da un gruppo di giovani attivisti, che hanno marcato in rosso sul calendario la data del 30 giugno come limite massimo per raccogliere 15 milioni di firme (due milioni in più rispetto ai voto con cui Morsi ha vinto le elezioni) per chiedere la destituzione del presidente. Sabato scorso, il portavoce del gruppo, Mahmud Badr, aveva affermato che erano state raccolte 22 milioni di firme e aveva sottolineato come la manifestazione di ieri avrebbe rappresentato il punto finale dell’esperienza di Morsi al governo.
L’attesa, dunque, era alta e già dal mattino nei viali del centro intorno a piazza Tahrir si respirava un’aria di incertezza. Molti negozi sono rimasti chiusi e i pochi aperti abbassavano le serrande man mano che arrivavano i manifestanti. Alle 3 del pomeriggio era quasi impossibile ritagliarsi uno spazio. L’aria, poco a poco, si riempiva dell’odore di petardi e degli slogan contro il presidente. Tre o quattro di questi si ripetevano in continuazione, al ritmo dei tamburi e delle vuvuzelas. Ma il leitmotiv era unico: “Morsi, vattene”.
“Vogliamo un presidente che ami il suo Paese”, spiega Ahmed Gamal, uno studente di ingegneria di 23 anni, “e Morsi non ama gli egiziani. Staremo qui fino a quando non se ne andrà”. “La società ha bisogno di mangiare, non delle sue politiche troppo radicali”, afferma Martha. Intanto, nei dintorni del palazzo presidenziale, una fiumana di donne con bambini, ragazzi e anziani inondava le strade con musica e cartelloni, mentre le auto e le onnipresenti motociclette ritmavano la melodia a suon di clacson.
Tutti chiedevano che Morsi lasciasse il suo incarico e convocasse elezioni anticipate. Le loro ragioni risiedono tutte nella gestione del Paese nell’ultimo anno: una nuova Costituzione dal taglio marcatamente islamista, il tentativo – poi fallito – di blindare per decreto i poteri presidenziali e, soprattutto, un’economia in condizioni pessime. “Non ho niente. Né soldi, né lavoro, né casa. Niente”, grida Hatem Ahmed, mostrando il risvolto delle sue tasche vuote. “Se almeno avessi un lavoro, non sarei qui”.
A poca distanza dal fragore delle manifestazioni, all’incirca 20 mila sostenitori di Morsi, in particolare islamisti e simpatizzanti dei Fratelli Musulmani, si erano riuniti già da venerdì scorso nei pressi della moschea Rabia el Adawiya, disposti a difendere la legittimità del risultati delle prime elezioni democratiche del Paese, anche a costo, secondo le dichiarazioni di alcuni, della loro stessa vita.
“Questa è una nuova rivoluzione contro i Fratelli Musulmani e il loro regime autoritario”, spiega Hani Raslan, analista del think-thank Al-Ahram Center for Political and Strategic Studies de Il Cairo. “È possibile che ci siano scontri violenti tra i sostenitori dei due lati, ma il punto è che questo regime è già caduto”. Difatti, si contano già almeno 5 morti in tutto l’Egitto negli scontri tra le diverse fazioni. Tuttavia Raslan prevede che “un’assemblea costituzionale dirigerà il Paese durante i prossimi mesi, fino a quando verranno indette nuove elezioni”.
Nonostante a illuminare piazza Tahrir non erano rimaste che le stelle, decine di migliaia di persone continuavano a occupare la piazza. Neanche gli elicotteri militari Apache che sorvolavano la zona impedivano che il rosso dei cartelli e delle bandiere continuasse a dominare piazza Tahrir.