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    La marcia su Nuova Delhi

    Sono stati in marcia per dieci giorni. Senza il sostegno di nessun partito. Sono i più poveri dell'India e il loro cammino si è interrotto ad Agra

    Di Tommaso Natoli
    Pubblicato il 15 Ott. 2012 alle 22:19 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 22:05

    La marcia su Nuova Delhi

    Sono stati in marcia per dieci lunghi giorni, dal 2 all’11 ottobre. Sanno di aver preso parte a un evento gravoso e impegnativo, anche perché organizzato senza l’appoggio di nessun partito politico o sigla sindacale. Il legame che ha unito e animato questa marea di donne e uomini deriva unicamente dalla loro condizione di ‘ultimi’ e dal bisogno disperato di non essere dimenticati. La gran parte del corteo è formata da Dalit (gli “intoccabili”) e da membri della tribù indigena Adivasi (letteralmente “abitanti originari”). Gli altri sono perlopiù lavoratori occasionali o itineranti, contadini e pescatori. Rajagopal P.V., il fondatore di Ekta Parishad (l’organizzazione promotrice), il giorno della partenza ha rivolto alla folla un discorso carico di emotività: “La nostra è una lotta per la dignità, la sicurezza e l’identità”.

    Il lungo cammino collettivo d’ispirazione ghandiana è stato organizzato per denunciare la precarietà di milioni di cittadini costretti a condizioni di vita insostenibili. Alla rigida stratificazione sociale si sono drammaticamente sommati oggi gli effetti della modernizzazione produttiva che li ha spinti ancora di più ai margini del processo di sviluppo. “La Jan Satyagraha March durerà per 26 giorni”, aveva dichiarato poco prima della partenza Aneesh Thillenkari, uno dei portavoce della manifestazione. “Circa 35 mila persone impegnate in un cammino non violento verso la capitale: contiamo di arrivare tra circa un mese in più di 100 mila”. Un evento simile era già stato organizzato nel 2007, seppur con una partecipazione minore. In quell’occasione 11 persone persero la vita durante il percorso: tre morirono perché investite da un camion, otto di infarto.

    “Chiediamo semplicemente il varo di una riforma agraria che permetta a chi non ha più niente di sopravvivere”, denuncia Thillenkari mentre un fiume umano scorre lentamente alle sue spalle. “Il governo centrale dice che la questione è di competenza delle autorità locali ma nel frattempo compra i terreni per destinarli a un utilizzo industriale o per creare delle zone economiche speciali”. Sollevare la questione della terra come risorsa fondamentale per lo sviluppo e la riduzione della povertà è dunque l’obiettivo principale: “Le politiche di privazione territoriale che sono state condotte negli ultimi anni devono essere fermate, perché il progresso del Paese possa garantire a tutti i livelli minimi di sussistenza.”

    La fase di forte crescita nell’economia indiana è cominciata nel 1991 con le prime liberalizzazioni. Compagnie straniere e gruppi di potere interni hanno cominciato a investire nel settore produttivo industriale, puntando a vendere automobili, beni di lusso e prodotti di stampo occidentale alle crescenti classi medie. Queste politiche hanno consentito al Paese di diventare la terza potenza economica dell’Asia. Una posizione che secondo molti è stata costruita su forti contraddizioni interne, soprattutto se si considera che nel 2012 il 73 per cento vive in zone rurali, il 50 per cento della forza lavoro opera nel settore agricolo e che sono circa 650 milioni gli indiani sotto la soglia di povertà – di cui 340 considerati in condizioni estreme.

    Secondo un report sulla malnutrizione in India realizzato nel gennaio 2011 dall’organizzazione non governativa HungaMa For Change, il 42 per cento dei bambini sotto i cinque anni è sottopeso. “Una vergogna nazionale”, ha dichiarato pubblicamente lo stesso primo ministro Manmohan Singh commentando il dato. Negli ultimi anni molti progetti industriali sono stati rinviati, o in alcuni casi totalmente abbandonati, a seguito di controversie con le comunità locali in materia di acquisto di terreni. Di fatto grandi frange di popolazione si sentono sacrificate sull’altare del liberismo che – sostengono – li ha costretti a indebitarsi relegandoli in una condizione di insicurezza cronica.

    Nei giorni a ridosso della marcia alcuni tentativi di dialogo erano stati portati avanti dai rappresentanti dei lavoratori agricoli e del governo, inclusi il ministro dell’Industria e del Commercio e quello dello Sviluppo rurale. “Andate a casa, troveremo un compromesso”, aveva dichiarato alla folla il ministro Anand Sharma, volato il 2 ottobre a Gwailor per tentare di scongiurare in extremis l’avvio della protesta. Anche il primo ministro Singh si era mostrato favorevole alla proposta di una road map che avrebbe portato a una riforma agraria entro un massimo di 6 mesi.

    Il principale promotore della marcia su Delhi, Rajagopal, non si era mostrato convinto della serietà del progetto e aveva rinunciato a ulteriori negoziazioni. Giovedì 11 ottobre, tuttavia, le parti sono giunte a un accordo e la marcia si è definitivamente fermata ad Agra. Il ministro dello Sviluppo rurale ha dichiarato che “se il governo non sarà in grado di rispondere alla questione, Rajagopal avrà tutto il diritto di riprendere la sua protesta”.

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