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    La gioventù di Hebron

    "Se questa generazione non si evolverà in positivo, Hebron resterà una trappola e pian piano sarà inghiottita"

    Di Bianca Senatore
    Pubblicato il 22 Apr. 2014 alle 23:30 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 09:05

    “Come ti chiami”, mi chiedono un paio di bambine in perfetto inglese, incuriosite dalla macchina fotografica e dai capelli al vento. Rispondo con entusiasmo, ma la seconda e la terza domanda mi spiazzano.

    “Ti piace Hamas? Preferisci Hamas o Al Fatah?”. A Hebron, cuore della Cisgiordania, 30 chilometri a sud di Gerusalemme, il clima è teso, ma lo è da così tanto tempo che sembra tutto surreale, come se fosse finto. Eppure, è proprio tra i vicoli polverosi del centro storico che Hamas e Al-Fatah, principali forze politiche della città, organizzano la propria politica e i bambini crescono con il mito di chi lotta per l’indipendenza della Palestina.

    “Per i più piccoli vivere così è facile, perché ci sono nati”, spiega Jehan, volontaria della Mezza Luna Rossa Palestinese. “Sono abituati a vedere check-point a ogni strada, a sentire la tensione addosso, a sentire la pressione dei padri che non parlano che di azioni, riunioni. Con questi bambini si cerca di intervenire con terapie ludiche, per fargli vedere l’aspetto sereno della vita –– ma quando ci sono attacchi e attentati ogni due/tre giorni, è difficile, perché ogni volta è come ricominciare da zero”.

    Lo scorso 14 aprile la violenza è esplosa nuovamente nella zona a sud dell’enclave ebraica. Solo due giorni prima la Corte Suprema israeliana si era pronunciata a favore di un gruppo di coloni ebrei che, a seguito di una disputa per una compravendita illegittima, almeno secondo il proprietario palestinese, avevano occupato un’abitazione. Dopo l’annuncio della sentenza, due uomini hanno sparato sull’auto di una famiglia di Gerusalemme che era in visita ai parenti in occasione della Pasqua ebraica e hanno ucciso l’uomo, mentre la moglie e i due figli sono rimasti feriti.

    E ora nella zona 2 di Hebron, il cuore della città vecchia che è sotto il controllo dell’esercito israeliano, i soldati sono più che mai severi e inferociti; le code ai check-point, per andare da una parte all’altra del quartiere, sono lunghe ore e ore. “La città è come una scacchiera: ci sono recinti con un solo ingresso e ogni volta è necessario rispondere a un interrogatorio,” mi raccontano.

    Solo a volte è tutto tranquillo e si passa dai tornelli in maniera agile, con i soldati che sembrano rilassati e ti guardano quasi con un sorriso, abituati a stare lì perennemente, quasi come fossero parte della scenografia. La vita scorre così, in un precario equilibrio che regola i rapporti anche tra le due principali fazioni politiche, ma il sabato che non c’è scuola tutti i bambini s’incontrano con i volontari delle associazioni legate alla Mezza Luna Rossa.

    Giocano, mentre le mamme parlano con la psicologa del centro. “Mi piace stare qui”, dice Mazel, nove anni, capelli intrecciati e occhi indagatori. “Mi piace perché posso stare insieme alle mie amiche e qui si ride sempre, nessuno è arrabbiato”.

    “A volte mi chiedono se c’è qualcosa che mi inquieta – racconta Sumahya, che sembra più grande della sua età e mostra un carattere forte e deciso – ma io non ho paura di niente e non sono confusa affatto, so come vanno le cose”. A nove anni Sumahya sembra già interessarsi alla politica tanto che, in ogni suo discorso, nomina Hamas. E nelle fotografie, mentre gli altri fanno il segno della vittoria, lei mostra fiera il suo simbolo: un quattro indicato con le dita, come quando si conta.

    Le altre volontarie del centro dicono che è una ragazza “impegnativa” e che sono pochi, in verità, i bambini che si sentono così coinvolti dalla politica. Le donne, invece, non vogliono neanche sentire pronunciare il nome dei partiti. “Parlano soprattutto dei loro mariti”, racconta Nasreen, psicoterapeuta del centro. “Si lamentano della loro assenza in casa, dicono di essere frustrate dalla routine domestica e chiedono consigli su come educare i figli mantenendo in equilibrio modernità e tradizione”.

    In una città come Hebron, che prova a stare al passo con l’occidente, la tecnologia fatica molto a farsi strada tra le abitudini quotidiane dei cittadini e solo i ragazzi più grandi, a scuola, imparano ad avere dimestichezza con il computer. L’accesso illimitato a internet è ancora un miraggio, eppure, nonostante vivano come in una bolla, l’inglese lo parlano anche i più giovani.

    Le ragazze che mi circondano, mettendosi in posa per le foto con la bandiera palestinese in bella vista, sembrano essere dotate di qualcosa che non ho riscontrato altrove: hanno cioè la capacità di resistere alle difficoltà, agli stenti, alla mancanza di libertà; sembrano avere la forza di andare avanti. Anche se, forse, c’è ancora qualcosa su cui lavorare: un obiettivo concreto da raggiungere.

    “C’è bisogno di una speranza”, racconta Jehan con un velo di malinconia; lei che ha studiato all’università di Hebron e si è specializzata a Betlemme. “Questi bambini devono capire che la soluzione non è lo scontro violento. Se questa generazione non si evolverà in positivo, Hebron resterà una trappola e pian piano sarà inghiottita”.

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