Mentre guido lungo il porto di Montevideo su un pick-up del governo per andare a intervistare il presidente uscente dell’Uruguay José Mujica, qualcosa mi colpisce fuori dal finestrino.
È l’immagine che riflette i cambiamenti apportati da questo atipico leader dell’America Latina, capace di trasformare il piccolo Uruguay in una delle nazioni più progressiste sulla Terra, a pochi mesi di distanza dalla fine del suo mandato, che scade il prossimo marzo, e dopo cinque anni al potere.
Arrivando dall’Europa, quello che mi circonda sembra una distesa apparentemente infinita di giganteschi tubi metallici grigi, lunghi più di 30 metri, che rivestono le pale delle turbine eoliche. A breve, ciò permetterà all’Uruguay di soddisfare circa il 30 per cento del suo fabbisogno energetico attraverso fonti rinnovabili.
“Mi raccomando, si ricordi di fare domande a Pepe su questo tema. È uno dei successi di cui va più fiero”, afferma dal sedile anteriore l’addetto stampa del presidente, Joaquín Costanzo.
Vista l’esigua popolazione dell’Uruguay (appena 3,4 milioni di abitanti), sembra quasi normale che tutti chiamino il presidente Pepe, il vezzeggiativo di José in spagnolo. Si abbina bene con la sua nota umiltà e con la sua avversione alla ricchezza e all’ostentazione.
Durante la dittatura uruguayana degli anni Settanta e Ottanta, Mujica trascorse in carcere 13 anni, durante i quali fu sottoposto a torture e a lunghi periodi di isolamento, spesso in un buco scavato sottoterra. Questa esperienza ha permesso al presidente uscente dell’Uruguay di riflettere a lungo sulla futilità della ricchezza e sull’inutilità della violenza.
La sua agonia, amplificata dalle ferite da arma da fuoco inflittegli durante la cattura, lo portò a un certo punto a diventare pazzo e a sentire voci nella sua testa.
Tuttavia, non c’è traccia di amarezza nell’aria mentre Manuela, il famoso cane diciottenne a tre zampe di Mujica, si precipita fuori per dare il benvenuto ai visitatori nella piccola fattoria dove il presidente vive a Rincón del Cerro, a 20 minuti da Montevideo. La casa ha solo tre stanze. Mujica si rifiuta di trasferirsi nella lussuosa dimora presidenziale.
“Io qui sono ricco”, afferma mentre porta fuori due cuscini che hanno visto giorni migliori, per poi buttarli su due sedie da giardino arrugginite messe lì per l’intervista. I suoi vecchi stivali neri, con i lacci sciolti, sono pieni di fango e lui non indossa calzini in questa mite mattina primaverile del Sud.
Mujica non rimugina sugli anni di prigionia. “Non credo nel cosiddetto ‘torturometro’. In altre parole, la tortura non definisce ciò che sei, l’averla subita non dovrebbe darti un’aura di prestigio”. Con un’alzata di spalle, minimizza l’odio per i suoi carnefici. “Se non fossero stati loro, sarebbero stati altri. È inevitabile. Se pesti i piedi ad alcune classi sociali, si scatena l’inferno, ma l’odio non ha senso, è un veleno. Non puoi passare la vita a cercare di riscuotere debiti che nessuno pagherà. Quella non è vita. Si deve voltare pagina”.
Questo mese, però, potremmo concedere a Mujica un insolito attacco di nostalgia. Eletto nel 2009, è il secondo presidente consecutivo del Frente Amplio (Fronte Ampio), una coalizione di partiti di sinistra. Con la successione di Mujica a Tabaré Vázquez, eletto nel 2004, il Frente Amplio ha spezzato la tradizionale alternanza al potere tra i partiti Blanco e Colorado (i Bianchi e i Rossi).
Visto che la Costituzione vieta a Mujica di candidarsi per un secondo mandato consecutivo, Pepe ha intenzione di rimanere senatore dopo le elezioni presidenziali del 30 novembre, nelle quali Vázquez si è aggiudicato un secondo mandato presidenziale.
Il percorso di Pepe Mujica è stato un percorso strabiliante: da guerrigliero a venerato presidente.
Quando Mujica fu arrestato nel 1972, era un giovane membro del gruppo guerrigliero Tupamaro che dormiva con una mitragliatrice sotto al letto. Adesso, considera quella violenza insensata. “Eravamo figli del nostro tempo in un mondo diverso. Ma non si può sacrificare la vita, che è quasi un miracolo, per l’idea che tra trent’anni forse ci sarà un mondo migliore. Adesso ci stiamo battendo per gli stessi obiettivi, ma con mezzi diversi. È meglio essere cauti, perseverare e cercare il cambiamento per aumentare la redistribuzione della ricchezza e la giustizia sociale, senza imboccare la via che conduce alla violenza».
Rincón del Cerro non potrebbe essere più modesta. Vecchie lattine di vernice sono state adibite a vasi dove cresce un qualcosa che non si può realmente definire fiori, solo germogli verdi che sembrano erbaccia. Manuela, il meticcio nero senza una zampa (“ha avuto un incidente quando aveva dieci anni”, spiega Mujica) è senza dubbio il cane meno presidenziale del pianeta.
Addossata a un filare di cespugli, l’unica panchina da giardino, fatta di tappi di bottiglia di plastica cuciti in una rete. “L’hanno costruita i detenuti di un reparto psichiatrico di una prigione”, ricorda il presidente. E a guardarla, non si avrebbero dubbi.
L’ambiente umile passa però in secondo piano quando Mujica inizia a parlare dell’incredibile trasformazione economica dell’Uruguay sotto la sua guida.
“Abbiamo vissuto anni positvi dal punto di vista dell’uguaglianza. Dieci anni fa, circa il 39 per cento degli uruguaiani viveva sotto la soglia di povertà. Adesso sono meno dell’11 per cento. Abbiamo anche ridotto la povertà estrema dal 5 a un esiguo 0,5 per cento”, dice orgoglioso mentre Manuela si accovaccia ai suoi piedi sull’erba rada.
Mujica ha anche aumentato gli investimenti da circa il 13 per cento del Pil di un decennio fa al 25 per cento odierno.
E poi ci sono i parchi eolici. “Entro il 2016, soddisferemo più del 30 per cento del nostro fabbisogno energetico con fonti rinnovabili. Abbiamo sfruttato il fatto che l’Europa fosse in crisi e che alcuni progetti non potevano più essere attuati. Ci sono arrivate offerte per parchi eolici a prezzi davvero interessanti”.
L’Uruguay è diventato un Paese esportatore di energia. Vende elettricità al suo vicino settentrionale, il Brasile, che ha quasi 200 milioni di abitanti in più.
Sempre negli ultimi cinque anni, Mujica ha legalizzato l’aborto (oltre all’Uruguay, in America latina è legale solo a Cuba e a Città del Messico) e la vendita della marijuana. Come spiega, “Nessuno è a favore dell’aborto, ma le donne ne hanno bisogno: è un dato di fatto”.
È altrettanto schietto quando spiega perché ha fatto approvare la legalizzazione della cannabis: “Abbiamo contrastato le droghe per 80 anni e non ha funzionato. Il narcotraffico è di gran lunga più grave del consumo di marijuana. E a chi non lo vuole ammettere dico: guardate il Messico, l’America centrale, l’Honduras, il Guatemala… Vedrete Stati falliti, divorati dall’interno dal traffico di droga”.
Quasi si arrabbia quando pensa a chi combatte ancora il traffico di stupefacenti attraverso il proibizionismo. È sul punto di esplodere quando afferma: “Il problema è che accanto al narcotraffico, sono state costruite delle strutture gigantesche per contrastarlo. Lo Stato ha diverse patologie e una di queste è che chiunque svolge un compito inizia a pensare che il suo lavoro sia al centro dell’universo. Tutti vogliono potersi guardare allo specchio e pensare che ciò che fanno sia essenziale per la società. Non ho bisogno di repressione, ma di medici che possano occuparsi di questa schifezza!”.
In che rapporti è Mujica con i suoi omologhi internazionali, che non condividono i suoi gusti semplici? Queste differenze creano frizioni?
“Se in una democrazia sono le maggioranze a dover decidere, io credo che i governanti debbano vivere come la maggioranza della popolazione, non come la minoranza. Se la presidenza diventa una corte reale, io sto offendendo l’anima della repubblica. Mi sto dando al contrabbando feudale o monarchico. Lasciatelo fare ai re!”.
L’unico mezzo che possiede Mujica è una vecchia Volkswagen Beetle blu malridotta. La fattoria è della moglie e lui dà in beneficenza una parte consistente del suo stipendio da presidente.
“Per molti anni ho dormito sul pavimento di un carcere e le notti in cui avevo un materasso, ero felice. Sono sopravvissuto con praticamente nulla. Per questo ho iniziato ad apprezzare le piccole gioie della vita e a credere che ci debbano essere dei limiti. Se mi dedicassi ad accumulare oggetti, dovrei trascorrere una parte considerevole della mia vita a prendermene cura e non avrei tempo per le mie passioni, la politica nel mio caso. Quindi, vivere con poco per me non è un sacrificio. È un’affermazione di libertà, mi permette di avere più tempo per ciò che mi motiva. È il prezzo della mia libertà individuale. Sono più ricco così”.
Uki Goñi è un giornalista del Guardian. Il suo articolo in lingua originale è stato pubblicato qui.
(Traduzione a cura di Lorenza Geronimo)