“Sono stato eletto democraticamente”, ha ricordato il primo ministro turco Tayyip Erdoğan. “Democrazia non significa soltanto elezioni”, l’ha ammonito di rimando il presidente della Repubblica Abdullah Gül, suo concorrente all’interno dell’Akp.
Questo botta e risposta tra le due anime del partito di governo è più che mai rappresentativo della problematica democratica turca. Non è la prima volta, infatti, che la storia della Repubblica ha visto governi democraticamente eletti rivoltarsi contro principi liberali a cui spesso facciamo riferimento come “valori democratici”.
Spesso teatro di quello che Tocqueville chiamò “dittatura della maggioranza”, la Turchia si è così trovata di fronte a un conflitto tra “democrazia procedurale” ed esiti democratici.
Piazza Taksim presenta però qualcosa di nuovo rispetto alle esperienze precedenti. Mentre prima i protagonisti erano i militari, che intervenivano quando i politici facevano qualcosa di “sbagliato”, questa volta il faccia a faccia è tra i cittadini e il partito che fu votato proprio per disfarsi del ruolo ingombrante dell’esercito. Un veloce sguardo all’indietro, alla storia della Repubblica Turca, può aiutare a capire questo passaggio.
La guerra di indipendenza turca, che durò fino al luglio 1923, consacrò la leadership indiscussa di Kemal Ataturk. Ancora oggi la Costituzione turca lo definisce ““guida immortale ed eroe impareggiabile” nel preambolo.
Ataturk negli anni successivi rivoluzionò la società turca dall’alto nel nome di “secolarismo” e modernità, di fatto sforzandosi di costruirla a immagine e somiglianza dell’Occidente anche se amava affermare “noi non somigliamo a nessuno se non a noi stessi”.
Un sistema di rappresentanza democratica, coerente con il repubblicanesimo che promuoveva, mascherava lo strapotere di fatto del leader. Nell’esercitarlo, Ataturk violava gli stessi principi che la sua ideologia propugnava. Nel 1930 decise di autorizzare la creazione di un partito alternativo al suo Ppr (Partito Popolare Repubblicano), ma subito si pentì e lo sciolse quando si accorse che faceva opposizione.
L’élite militare rappresentava la spina dorsale del Ppr, e dopo la morte del leader l’esercito si incaricò della promozione dei valori kemalisti nella Turchia orfana di Ataturk. Quali che fossero i risultati prodotti da libere elezioni, il secolarismo e gli altri valori della “rivoluzione dall’alto” non potevano essere violati. In questo modo Ataturk sarebbe stato davvero leader “immortale” e la sua rivoluzione “permanente”.
Nel 1960, 1971 e 1980 governi democraticamente eletti furono rovesciati dalle forze armate. Il 28 febbraio 1997 l’esercito impose al governo una lista di misure per un giro di vite sull’“islam reazionario”, “irtica” in turco. Anche quando non intervenivano direttamente, i militari erano in grado di esercitare forti pressioni sulle autorità civili.
Per Dagi, professore di relazioni internazionali dell’università di Ankara, “i militari imponevano la dittatura di una minoranza con la scusa di tutelare la Turchia da una dittatura della maggioranza”. I “garanti di ultima istanza” dei valori kemalisti non erano però privi di sostegno popolare: in particolare nel 1960 il coup fu accompagnato da grosse manifestazioni di sostegno.
Il 3 novembre 2002 il partito islamista ‘Giustizia e Sviluppo’ ottenne due terzi dei seggi in Parlamento, e da allora ha sempre dominato la scena politica.
Lo scontro con i militari era inevitabile: da subito figure di spicco dell’esercito lanciarono moniti avvertendo che il “processo del 28 febbraio continua” (il riferimento è all’intervento del 1997). Bulent Armç, che oggi da vicepremier definisce le proteste “giuste e legittime, perché fondate su preoccupazioni di carattere ambientalista”, scatenò il conflitto sulla questione del velo.
Allora presidente del Parlamento, provocò i militari iniziando a frequentare eventi pubblici con la moglie velata. Alcuni generali gli fecero visita nel suo ufficio, come racconta G. Jenkins, dove sedettero per tre minuti senza dire una parola. Poi si alzarono e se ne andarono. Più chiaro di così.
Negli anni successivi, però, lo scontro tra Akp e militari vide l’esercito soccombere di fronte allo strapotere del partito di Erdogan. Attraverso una serie di processi, primi fra tutti l’inchiesta Ergenekon (la cosiddetta “Gladio Turca”) e l’operazione Balyoz (martello in turco), l’esercito fu indebolito e molti dei suoi vertici incarcerati.
A queste inchieste sulle reti di potere occulte e sulle presunte macchinazioni di nuovi coup si sono poi aggiunte i progetti di riforma costituzionale iniziati nel 2011, che diminuirebbero ulteriormente il potere dei militari.
Oggi il primo ministro Erdogan promuove il presidenzialismo puntando a prendere presto il posto dell’avversario Gul. “La libertà di stampa è stata fra le vittime principali della sua deriva autoritaria e illiberale. Il governo turco ha incarcerato più giornalisti rispetto a ogni altro Paese del mondo”.
Non a caso la copertura mediatica delle proteste è stata nulla: pochi giorni dopo l’inizio delle contestazioni antigovernative gruppi nutriti di manifestanti si sono radunati in sit-in sotto la sede della televisione Ntv.
A questo si è aggiunto il crescente tentativo di “islamizzare” la società, violando in modo crescente l’istanza secolarista di Ataturk. Le recenti misure su baci in luoghi pubblici e bevande alcoliche sono fra l’altro sufficientemente impopolari da mobilitare i più apolitici dei cittadini.
In un momento storico in cui è venuta a mancare la tranquillità di un garante di ultima istanza come i militari, che seppur non “senza peccato” avevano sempre restituito il potere alle autorità civili dopo i propri interventi, il popolo non può più fare affidamento che su se stesso. Questa volta a difendere la democrazia ci devono pensare i turchi. Contro i loro rappresentanti, democraticamente eletti.
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