La polizia segreta arriva di notte per non dare nell’occhio e mantenere una parvenza di normalità.
Ma la Corea del Nord non è un paese normale. Intere famiglie vengono arrestate per il principio del yeon jwa je – colpevolezza per associazione – secondo il quale fino a tre generazioni legate una persona giudicata “criminale” devono essere punite. Una pratica che ricorda le faide mafiose.
Non ci sono processi o sentenze, solo un viaggio senza ritorno verso le regioni montuose, dove sorgono gran parte dei campi di lavoro.
Non è un mistero che nei paesi socialisti si possa finire in prigione nel caso si sia indicati come figure controrivoluzionarie, tuttavia nel caso nordcoreano la definizione usata dal regime per identificare i criminali è volutamente ampia, fino quasi a scadere nel ridicolo.
Fare una chiamata internazionale. Cantare una canzone pop sudcoreana. Non aver spolverato a dovere una foto di Kim il Sung.
Sono tutti “crimini” puniti con la deportazione nei kwan-li –so, l’equivalente dei gulag sovietici. Secondo le ultime stime del Comitato per i Diritti Umani in Corea del Nord, organizzazione non governativa americana, sarebbero tra i 150mila e i 200mila i prigionieri politici rinchiusi nelle varie colonie penali della Corea del Nord. Ce ne sono almeno sei, e la più grande, Hwasong, si estende su un’area di quasi 600 chilometri quadrati.
Negli ultimi vent’anni il flusso di rifugiati politici in fuga dalla Corea del Nord è aumentato in maniera esponenziale. A oggi sono 23mila le persone che hanno chiesto asilo a Seoul dopo aver affrontato un lungo e rischioso viaggio attraverso il sud-est Asiatico. Molte di loro sono fuggite dai gulag, alcune erano addirittura guardie.
Raccontano di esecuzioni sommarie, torture, violenze sessuali e aborti obbligatori. Ma soprattutto carichi di lavoro insopportabili all’interno di miniere e fabbriche che spesso esportano i propri prodotti all’Occidente. Date le razioni sotto il livello di sussitenza, le morti per denutrizione costituiscono la stragrande maggioranza dei decessi all’interno dei gulag.
Il regime, ovviamente, nega tutte le accuse: “Non ci sono problemi legati ai diritti umani. Una cosa del genere non sarebbe possibile alla luce della natura intrinseca del sistema socialista che serve le persone e le pone al centro di tutto”.
Ma a discapito dei proclami di Pyongyang, le testimonianze di centinaia di persone dipingono un quadro piuttosto chiaro. Anche per questa ragione le Nazioni Unite hanno creato una commissione d’inchiesta incaricata di investigare le eventuali violazioni dei diritti umani da parte della Corea del Nord.
Un team di esperti guidato dall’australiano Michael Kirby ha appena terminato le proprie indagini a Seoul, dove decine di ex-prigionieri hanno mostrato al mondo i segni delle torture subite nei kwan-li-so.
“All’inizio pensavo che mi avrebbero tagliato la mano all’altezza del polso” ha detto Shin Dong Hyuk –nato in un campo di lavoro e riuscito poi a fuggire – “Quindi sono stato felice quando mi hanno tagliato solo un dito”. Shin Dong Hyuk aveva fatto cadere una delle macchine per cucire con cui era obbligato a lavorare.
Si attende ora che la commissione d’inchiesta annunci il risultato delle indagini davanti all’Assemblea Generale dell’Onu, il mese prossimo. Rimangono tuttavia ostacoli considerevoli alla persecuzione delle autorità nordcoreane, anche perché la Corea del Nord non è firmataria dello Statuto di Roma, il che non la pone sotto la giurisdizione della Corte Penale Internazionale.
Comunque vada, il regime di Pyongyang rimane una fortezza imperscrutabile. Mentre in altre parti del mondo le violazioni dei diritti umani vengono immortalate da smartphone e cineprese e rimbalzate dalla rete nel giro di poche ore, in Corea del Nord c’è uno scarto che va dai 2 ai 5 anni tra il momento in cui i diritti di una persona vengono calpestati e il momento in cui il mondo lo viene a sapere.