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    L’autunno di Al Jazeera

    Quanto è davvero affidabile il network qatariota?

    Di Eleonora Vio
    Pubblicato il 30 Lug. 2013 alle 18:24 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 08:31

    Quanto è realmente affidabile Al Jazeera? È diventato il quesito ricorrente tra gli utenti dell’emittente qatariota da una decina d’anni. Almeno una volta l’anno la piattaforma mediatica di Doha si trasforma in vittima privilegiata di accese polemiche e, per capire la natura di queste dispute, è necessario entrare nella fitta rete di relazioni economiche e politiche tra la notizia e la sua fonte.

    Al Jazeera vide la sua comparsa in arabo nel novembre del 1996, e in inglese nel 2006. Da quel momento in poi, con circa 50 milioni di utenti alla prima e più di 100 milioni alla seconda, l’emittente decolla.

    Pur riconoscendo la sua natura indipendente, l’emiro del Qatar dona centinaia di milioni di dollari per lanciare il progetto mediatico. A distanza di 17 anni la monarchia assoluta ed ereditaria dal Pil pro capite più alto al mondo è ancora il finanziatore di maggioranza.

    Al Jazeera si è fatta apprezzare incondizionatamente per il suo riuscito tentativo di restituire il mondo arabo agli arabi, e di garantire un’informazione completa e rappresentativa di tante voci discordanti. La piattaforma qatariota ha cominciato a risvegliare le malelingue occidentali da quando fu l’unica emittente al mondo a coprire l’occupazione statunitense in Iraq e a svelare le malefatte compiute. A far vacillare la sua immagine anche nel mondo arabo, però, ha contribuito l’opinabile copertura data ad alcune tra le rivoluzioni del 2011.

    L’ultimo contraccolpo all’emittente qatariota arriva dall’Egitto di questi giorni. Il 4 luglio, dopo la cacciata dell’ex-presidente Morsi, le forze di sicurezza hanno irrotto negli uffici di Al Jazeera Mubasher Misr – di stanza al Cairo dal 2005 – impedendo di trasmettere le dimostrazioni pro-Morsi e arrestando membri dello staff.

    Non scorreva buon sangue tra la monarchia petrolifera del Golfo e l’Egitto ai tempi di Mubarak. Con la salita al potere dei Fratelli Musulmani, però, le relazioni tra la casa reale wahabita e i rappresentanti islamisti si son fatte improvvisamente molto forti, fino a portare alla chiusura d’importanti trattative per il riassestamento del bilancio e a investimenti pubblici e privati in uno Stato egiziano al tracollo.

    Da un lato, Al Jazeera ha incoraggiato visibilmente i moti rivoluzionari in Egitto. Per di più, “sebbene il Qatar rifiuti qualunque opposizione politica, compreso il partito dei Fratelli chiuso nel 2003,” riporta il sito Jadaliyya, “crede nell’islamismo come nella forza politica del futuro nel mondo arabo e ne sovvenziona i movimenti nascenti.”

    Dall’altro, però, scacciato Morsi, in Egitto è cominciata una campagna mediatica anti-Fratelli senza precedenti, che ha portato alla chiusura di diversi canali e testate islamiste egiziane. Agli occhi di un utente super partes, che Al Jazeera abbia tentato di mandare in onda il sit-in e le proteste dei Fratelli – quando di queste filtrava poco o nulla all’esterno – appare come un tentativo di garantire visibilità da parte di un ente che si propone di “dar voce a chi non ce l’ha.”

    Se in Egitto l’atteggiamento di Al Jazeera non è così chiaro, almeno tre sono i casi nel mondo arabo, dove il lavoro dell’emittente si è rivelato parziale. Si tratta dei moti rivoluzionari di Libia, Bahrain e Siria scoppiati nella primavera del 2011.

    “Il resoconto errato dei fatti libici,” scrive Stephen Lendman sul suo blog, “è stato ingannevole, ed è funzionato come arma di propaganda per Washington, la Nato e i ribelli, totalmente indistinguibile dagli altri media occidentali.”

    La piccola ma potentissima petro-monarchia del Qatar non ha solo aiutato i ribelli libici finanziariamente, commerciandone il petrolio, ma ha anche inviato truppe, forze speciali, armi e munizioni in larga scala, per rafforzarne l’operato. Il Qatar ha lentamente galvanizzato il supporto arabo a sostegno della risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che inviò la Nato in difesa dei civili libici contro Gheddafi.

    “Io dico ai miei fratelli e sorelle, soldati e ufficiali dell’Esercito Libico, di disobbedire quando il governo ordina loro di uccidere le persone. Ora ratifico una fatwa (decreto religioso) intimando a ufficiali e soldati di uccidere Qaddafi… Quest’uomo vuole annientare la sua gente”, proclamò il pluripremiato studioso islamico Sheikh Yusuf al-Qaradawi nel suo programma Sharia and Life in onda su Al Jazeera.

    Al-Qaradawi si schierò a fianco dell’emiro e tradì la sua attendibilità di accademico di spessore. Al Jazeera News calcò ulteriormente la mano, riportando, ad esempio, come il numero dei caduti in Libia si aggirasse sulla decina di migliaia basandosi solo sulle testimonianze dei ribelli e ignorando l’uso spropositato di bombe, uranio impoverito e altri armamenti impiegati dalla Nato. Il sito, intanto, si colorava con il nuovo tricolore libico, simbolo degli insorti.

    “La strategia dell’emiro è di supportare le forze democratiche nel mondo arabo”, spiega Ian Black sul Guardian, “per migliorare la posizione internazionale del Paese e far divergere l’attenzione dal Golfo, dove proteste anti-regime sono scoppiate in Bahrain”.

    La campagna d’intimidazione, tortura e repressione lanciata dalla monarchia sunnita del Bahrain contro le proteste democratiche a larga rappresentanza sciita ha poco da invidiare a quella libica. Perché Al Jazeera si limita a menzionare pochi brevi fatti e a dare un panorama generico del Paese? Forse perché le truppe qatariote sono stanziate nello Stato vicino e la struttura gerarchica del Qatar è incredibilmente simile a quella bahrenita?

    La frase pronunciata da un consulente mediatico qatariota al Time, cioè che “a nessuno piace esporre i panni sporchi in pubblico,” cade a pennello.

    Ecco l’ultimo caso esaminato: la Siria. Con l’egiziano Helal in testa alle news di Al Jazeera dal 2011, si sperava in una virata di professionalità in un’area che, fino a quel momento, aveva visto poco più di un conto approssimativo delle vittime, secondo dati distribuiti dall’opposizione siriana. Helal si era più volte detto stufo dell’ “ossessione” e “celebrazione” del “numero dei morti” e pronto a “non adottare una posizione solo per attirare gli utenti.”

    Purtroppo, “Gli impiegati anziani hanno ammesso in privato”, si legge sul quotidiano libanese Al Akhbar, “di come nessuno possa esprimere opinioni sulla Siria contrarie a quelle dell’emiro, pena l’essere ostracizzati e umiliati”.

    La sezione siriana di Al Jazeera è gestita da Ahmad al-Abda, fratello di Anas al-Abda membro del Consiglio Nazionale Siriano e teorico dei Fratelli Musulmani, noto con lo pseudonimo di Ahmed Ibrahim a causa dei suoi discutibili legami familiari.

    Inoltre, nel dicembre 2011 una missione di osservatori francesi in Siria rilevò tanti casi di mala informazione firmati Al Jazeera: proteste notturne organizzate a tavolino, interviste truccate e attacchi terroristici mai comprovati. In generale, per il network qatariota è difficile prendere le distanze dalle ambizioni politiche crescenti del suo patrono – specialmente quando si guarda al miliardo di euro annuale che riceve dalle sue gonfie tasche.

    Da spina nel fianco dell’Occidente, Al Jazeera si era guadagnata un posto d’onore nel panorama mediatico contemporaneo. Molto ha, però, perso lungo la sua strada.

    La domanda è se il network arabo continuerà a prestare la voce a chi non ce l’ha o, come recenti eventi hanno mostrato, diventerà un altro asservito organo di propaganda.

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