35mila. È questo il dato con cui l’Iraq ha salutato il 2014 per immergersi nell’anno nuovo.
Chi si cela dietro questa cifra? Civili che hanno perso la vita oppure persone rimaste ferite in attacchi di matrice terroristica. Era dal 2007 che non si registrava un numero così alto fra vittime e feriti.
Da nord a sud, l’intero Paese è stato interessato da questi episodi. Secondo il report pubblicato dalle Nazioni Unite domenica 4 gennaio, sarebbero più di 12mila i civili morti lungo tutto l’anno solare, almeno 484 ogni mese.
Una mappa del Washington Post illustra la situazione
“Ancora una volta, sono i civili che devono subire la violenza e il terrorismo”, ha riferito Nickolay Mladenov, il rappresentante speciale delle Nazioni Unite in Iraq. “Tutto ciò è veramente triste”.
I due terzi delle vittime sono state registrate a partire dal giugno 2014, il mese che ha rappresentato la definitiva avanzata dell’Isis in Iraq con la presa di Mosul, città da quasi 3 milioni di abitanti.
Nonostante lo scorso 8 agosto la coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti abbia iniziato i bombardamenti sui territori controllati dallo Stato islamico, l’emergenza nel Paese continua e sembra non volersi arrestare.
Le minoranze cristiane e yazide, oppresse dallo Stato Islamico del leader al-Baghdadi, vivono tuttora in una situazione di costante precarietà. Al momento, l’unica via di fuga percorribile sembra essere il Kurdistan iracheno.
Se il 2014 ha rappresentato per l’Iraq uno dei momenti più bassi della sua storia centenaria, il sipario che si sta aprendo oggi non sembra offrire prospettive migliori.
“Potremmo assistere allo stesso numero di morti civili o anche di più”, ha commentato Michael Knights, ricercatore presso il Washington Institute for Near East Policy. “Questo non è semplice terrore ma un conflitto molto attivo e su larga scala”.
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