Goma, riva nord del lago Kivu. È il 2001 e la vita del trentenne Fortunat Biselele sta per cambiare per sempre. Guida l’intelligence del Rassemblement Congolais pour la Démocratie-Goma, fazione del Nord Kivu di un gruppo armato sostenuto dal Ruanda e attivo nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo. Qui incontra Étienne Tshisekedi, il padre dell’attuale presidente, e per lui cambia tutto: nei successivi 20 anni servirà fedelmente la causa del suo clan. Entrambi ambiziosi, i due sono fatti per capirsi: nati nella provincia del Kasai, si alleano per contrastare Joseph Kabila, appena succeduto al padre a Kinshasa. Due anni dopo, nel 2003, l’accordo di Sun City, in Sud Africa, sospende la Seconda guerra del Congo e permette alle parti in conflitto di spartirsi incarichi e ministeri. Così l’anno successivo Biselele diventa presidente del consiglio di amministrazione della compagnia petrolifera Fina Congo, che ricoprirà fino al 2007, e ottiene anche un incarico nella sudafricana Dig Oil.
Da qui, “Bifort” – com’è conosciuto da tutti – comincia a tessere un’ampia tela di rapporti, persino con Theophas Mahuku, amico della famiglia Kabila, con cui sponsorizzerà la compagnia mineraria congolese Sud South. I suoi legami però arrivano fino ai servizi segreti dell’Agence nationale de renseignements (Anr) e alla potente Direction générale de migration (Dgm). Finché, dieci anni dopo non organizza con Pacifique Kahasha e Vital Kamerhe il successo elettorale che nel 2019 porterà al potere il rampollo del clan Tshisekedi, Félix-Antoine, sconfiggendo l’altro leader dell’opposizione, Martin Fayulu, e il delfino di Kabila, Emmanuel Ramazani Shadary.
Da allora Bifort è sempre rimasto dietro le quinte. È l’uomo che conosce tutti i segreti della Repubblica, che è stato coinvolto in ogni viaggio all’estero del leader congolese e che ha offerto i propri consigli su tutti i dossier più scottanti per il capo dello Stato. È, di fatto, il secondo uomo più potente del Paese ed è lui che cerca di avvicinare Kinshasa al Ruanda, senza successo, mentre la tensione nell’est del Congo continua a salire, tanto che secondo il Kivu Security Tracker, nei quattro anni di governo di Tshisekedi sono oltre 18mila le vittime della violenza armata nella regione.
Senza pace
Ma a due settimane dal quarto anniversario della salita al potere di Tshisekedi, l’8 gennaio Biselele compie una mossa inaspettata, visto il basso profilo perseguito fino ad allora: concede un’intervista televisiva al giornalista franco-camerunese Alain Foka in cui sostiene di essere essere stato a Kigali «più volte» per discutere con il presidente ruandese Paul Kagame e svela le basi di un accordo tra i due Paesi, rivelando implicitamente la natura del problema tra le rispettive capitali.
«Il presidente (…) ha proposto al suo omologo ruandese una cosa semplice: “Siamo un Paese ricco, voi siete nostri vicini. Nessuna guerra sposterà i confini, rimarremo vicini per tutta la vita. Vi suggerisco di creare progetti convenienti per entrambi. In patria abbiamo minerali che vi interessano. Con i vostri contatti avete la possibilità di rivolgervi a investitori di qualsiasi parte del mondo”. Lavoriamo in sinergia per cercare di sviluppare insieme l’area (dei Grandi Laghi, ndr)». Insomma, è tutta questione di spartirsi le risorse della regione e le dichiarazioni sono così chiare che scatenano un’ondata di malcontento contro Tshisekedi, accusato dagli oppositori – nell’anno delle elezioni – di voler «svendere» il Paese proprio quando, nelle settimane successive, era atteso a Doha, in Qatar, per incontrare Kagame e provare a raggiungere la pace.
Meno di una settimana dopo l’intervista, il 14 gennaio, il presidente Félix-Antoine Tshisekedi lo licenzia come suo consigliere particolare e i servizi segreti dell’Anr lo arrestano e lo tengono rinchiuso per sei giorni in una località segreta. La notizia circola ma nessuno capisce cosa sia successo. Poi, il 21 gennaio, Bifort riappare in un’udienza a porte chiuse davanti al tribunale di La Gombe, a Kinshasa, dove sarà interrogato per sei ore prima di essere tradotto nel carcere di Makala. È accusato di “spionaggio e intelligenza con il nemico” Ruanda, con cui da decenni Kinshasa è impegnata in una lotta più o meno aperta per il dominio sulla regione dei Grandi Laghi, compreso il Kivu, teatro di quel conflitto etnico tra hutu e tutsi, oggetto del recente appello per la pace di Papa Francesco.
Così il 26 gennaio il vertice di Doha non si terrà, Kinshasa accuserà Kigali di aver mandato a monte i negoziati e la propaganda congolese spingerà sempre di più sull’accusa rivolta al Ruanda (confermata da Ue, Usa e Onu) di sostenere il gruppo ribelle M23, che sostiene di difendere gli interessi dei tutsi nell’est del Paese e che dal novembre 2021 ha ripreso la lotta armata occupando diverse aree del territorio nazionale. Intanto Kagame rilascerà un’intervista in cui rispedisce al mittente i sospetti di un suo appoggio alle milizie oltre confine e punterà invece il dito contro l’esercito congolese, macchiatosi di atrocità certificate anche dalle Nazioni Unite, accusandolo di sostenere a sua volta le Forces démocratiques de libération du Rwanda (Fdlr) di etnia hutu, uno dei discendenti dei gruppi responsabili del genocidio del 1994. Insomma, un groviglio di interessi che allontana la pace e alimenta la spirale di violenza. Tutto per il profitto.
Tesori maledetti
I potenziali guadagni infatti sono enormi, soprattutto sulle rive del Kivu che, grazie all’elevata concentrazione di metano contenuto nelle sue acque e in parte causata dalle formazioni vulcaniche vicine, è uno dei “laghi assassini” dell’Africa. Un’eruzione al di sotto del fondale potrebbe sprigionare nubi tossiche, mettendo a rischio due milioni di persone che abitano intorno allo specchio d’acqua, esposte a 300 chilometri cubici di CO2 e 60 chilometri cubici di metano (un evento simile provocò 1.700 morti in Camerun nel 1986). Con questo gas però, che si trova a profondità comprese tra 270 e 500 metri con densità variabili, si potrebbero produrre 700 mega-watt di elettricità per oltre 50 anni e Kinshasa è determinata a sfruttare questa possibilità, non solo in quest’area.
Nel luglio dello scorso anno, il ministro degli Idrocarburi, Didier Budimbu, ha annunciato la messa all’asta di trenta blocchi in cui saranno concesse licenze per l’esplorazione di idrocarburi, da cui il governo stima di poter generare 600 miliardi di dollari di nuovo Pil. Attualmente, il Paese produce già l’equivalente di 25mila barili di petrolio al giorno ma il rialzo dei prezzi internazionali e l’appetito europeo per il gas dovuto alle conseguenze delle sanzioni contro la Russia per l’invasione dell’Ucraina hanno spinto la Repubblica Democratica del Congo ad accelerare lo sviluppo dei propri giacimenti, a danno dell’ambiente. In tutto, secondo Greenpeace, sono circa 11 milioni gli ettari di foresta messi all’asta e, stando all’ong Rainforest Alliance, oltre un milione di abitanti nelle aree dei giacimenti potrebbero essere direttamente interessati dall’inquinamento conseguente alle attività estrattive. Il lago Kivu non fa eccezione.
Qui Kinshasa ha messo all’asta tre lotti per l’estrazione di gas, tutti assegnati a metà gennaio, seguendo l’esempio del vicino Ruanda. Non si tratta solo di fare soldi: con questi progetti, tra il 2010 e il 2020, Kigali ha aumentato da meno del 10 al 46 per cento l’accesso della popolazione all’elettricità, mentre il gigante vicino nello stesso periodo ha registrato una crescita compresa tra il 12 e il 19 per cento. Grazie alle nuove attività però, Kinshasa spera di portare il dato al 32 per cento entro il 2030, a partire dal Kivu.
Lo sbarco degli americani
Lo specchio d’acqua – sul lato ruandese – ospita già un impianto da 26 mega-watt, costato 200 milioni di dollari e dato in concessione per 25 anni a una società con sede a Londra, la ContourGlobal (acquisita a dicembre dal fondo statunitense Kkr), che ne cura la gestione.
La centrale però era stata realizzata da un’altra azienda americana, che aveva ottenuto il contratto durante il vertice USA-Africa ospitato a Washington da Barack Obama nel 2014. È la Symbion Power, attiva in tutto il continente, che nel 2019 ha venduto la sua partecipazione nell’impianto ruandese e che a gennaio si è invece vista assegnare – in modo del tutto legale e trasparente – una delle tre concessioni (il blocco Makelele) messe all’asta da Kinshasa sul lato congolese del lago. Ma non si fermerà qui.
La società è stata fondata nel 2005 da Paul Hinks, un manager molto apprezzato non solo a Washington ma in diversi Paesi africani come Tanzania, Kenya e Nigeria e specializzata, come vedremo, nell’operare in aree di conflitto.
Hinks presiede Invest Africa, un’associazione con sede a New York che promuove gli investimenti nel continente, e in precedenza è stato per quattro anni presidente del Corporate Council on Africa di Washington DC. Il manager, che frequenta spesso e volentieri i summit con i leader africani, ha però fondato anche un’altra azienda, la MyHydro, che si occupa di pompe idroelettriche e che, come annunciato da Hinks nel novembre scorso, nei prossimi due o tre anni prevede di «installare diversi impianti nella Repubblica Democratica del Congo: tre nella provincia del Kasai, due a Bukavu (sul lago Kivu, ndr) e uno a Butembo (sempre in Nord Kivu, ndr)». Sembrano due aziende qualunque eppure la storia ci dice il contrario, anche quella più recente.
Al vertice USA-Africa presieduto nel dicembre scorso da Joe Biden, la Casa Bianca ha inserito MyHydro – per merito – tra le nove “società chiave” per la tutela del clima e le nuove fonti energetiche. Un bel riconoscimento arrivato dall’amministrazione americana, con cui Symbion ha rapporti da tempo.
L’azienda ha mosso i primi passi in Iraq ai tempi della guerra voluta da George W. Bush. Qui, tra il 2005 e il 2010, ha collaborato con le forze armate statunitensi e realizzato alcuni dei progetti resi più difficili dalle tensioni etniche e con gli occupanti occidentali. Tra i nove contratti portati a termine c’era anche una linea elettrica da 400 chilovolt da Baiji a Haditha fino al confine con la Siria, attraverso la provincia occidentale a maggioranza araba sunnita di al-Anbar, la più riottosa ad accettare l’amministrazione appoggiata dagli Usa e terreno fertile prima per al-Qaeda e anni dopo per l’Isis. Come spiegato da Hinks in un memorandum del 2009 pubblicato da WikiLeaks nell’ambito della corrispondenza dell’allora segretario di Stato Hillary Clinton, il successo di Symbion in un’area così pericolosa è stato possibile grazie alla collaborazione con le imprese e a una serie di accordi conclusi con i capi locali. «Abbiamo impiegato 3.000 iracheni in un territorio presumibilmente ostile infestato da ribelli e combattenti stranieri di al-Qaeda in Iraq», si legge nel documento che era stato inviato da Hinks al suo consulente esterno dell’epoca Joseph Wilson, ex ambasciatore Usa in Gabon e a São Tomé e Principe nonché marito dell’ex CIA, Valerie Plame, che l’aveva inoltrato a Clinton.
Così, grazie a WikiLeaks, la società finì al centro di uno scandalo – a cui l’azienda e Hinks si sono sempre detti del tutto estranei – perché, tramite i suoi contatti nelle alte sfere di Washington, Wilson (che dal 2011 non è più consulente della società) provò a sponsorizzare le attività di Symbion per ottenere contratti con Usaid in Afghanistan e con il governo locale in Tanzania (accordi poi raggiunti tramite procedure regolari). Il memorandum di Hinks finì infatti persino al vaglio dell’attuale consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan, allora collaboratore di Hillary Clinton, il cui team ne vagliò le affermazioni riguardo le operazioni condotte sul campo.
Al di là dei contatti ad alto livello e delle conoscenze a Washington però, il modello di lavoro in aree di crisi offerto dalla Symbion (la cui amministratrice ai tempi dell’Iraq, Mirela Comaniciu, è oggi direttrice generale di MyHydro) potrebbe risultare utile anche per le zone più calde della Repubblica Democratica del Congo. E magari la leadership congolese, come sottolineato da diversi media e commentatori locali, potrebbe sfruttare la tendenza di Washington a proteggere le proprie imprese, tutelando implicitamente gli interessi del Paese in cui investono.
Le conseguenze dell’avidità
Intanto però, mentre si tratta e si lotta per le risorse minerarie, nella regione si continua a morire. Largamente ignorata dai media internazionali, la guerra tra Kinshasa e l’M23 è tornata alla ribalta prima il 25 gennaio con l’abbattimento di un caccia congolese da parte di Kigali e poi con il viaggio apostolico di Papa Francesco in Repubblica Democratica del Congo. Gli ultimi mesi però sono stati a dir poco sanguinosi nell’est del Paese africano, soprattutto in Nord Kivu e non solo ad opera dei ribelli sostenuti dal Ruanda. Almeno 17 persone sono morte il 15 gennaio per un attentato dinamitardo contro una chiesa protestante a Kasindi, al confine con l’Uganda, rivendicato dal gruppo jihadista Adf. Altre 131 erano state uccise a colpi d’arma da fuoco e machete a Rutshuru tra il 29 e il 30 novembre scorso ad opera del M23. Non stupisce allora che l’Ibrahim Index of African Governance 2022 inserisca il Paese tra i meno sicuri dell’Africa insieme a Sudan, Eritrea, Somalia e Sud Sudan.
Soltanto in Nord Kivu, secondo le Nazioni Unite, dal marzo scorso «521mila persone sono dovute fuggire da bombardamenti aerei e reclutamenti forzati condotti dai gruppi armati non governativi», portando a 2,1 milioni gli sfollati presenti nella provincia (su oltre 5,6 milioni registrati in tutto il Paese, che ospita anche 500mila rifugiati). Insomma, la strada è lunga e una soluzione non sembra vicina ma, come ha spiegato il Papa, la pace «non pioverà dal cielo», richiede «di combattere lo scoraggiamento» e il «fatalismo rassegnato» e soprattutto di «disinnescare l’avidità».