È il 6 marzo e l’invasione russa in Ucraina è iniziata da appena dieci giorni. Alla Cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca un uomo dalla lunga barba bianca e vestito di nero si scaglia contro un Occidente decadente reo di voler imporre «un test alla tenuta dei valori del mondo russo nel Donbass». «Il nome di questo test è molto semplice e allo stesso tempo terribile: una parata gay», sono queste le parole pronunciate dal patriarca di Mosca Kirill durante la Domenica del Perdono che precede la Quaresima.
L’appoggio alla guerra di Putin appare inevitabile. I due sono amici di lunga data, tanto che il presidente russo è stato definito «un miracolo di Dio» dal capo della chiesa ortodossa, autorità morale per circa 165 milioni di fedeli nel mondo. Come il leader del Cremlino, anche Kirill, al secolo Vladimir Gundjaev, è nato (nel 1946) in quella che ancora era chiamata Leningrado. Secondo l’esperto di Urss e Kgb, Felix Corley, che nel 2018 pubblicò i “Mikhailov Files”, i due Vladimir di San Pietroburgo si sono conosciuti all’interno dei servizi segreti. Il nome in codice del patriarca era, appunto, “Mikhailov”. Ora il loro destino parallelo sembra ritrovarsi anche sotto le sanzioni dell’Unione europea, che da pochi giorni ha accusato il patriarca di essere responsabile delle minacce all’integrità territoriale dell’Ucraina.
Proprio a Putin e a un controllo capillare della chiesa ortodossa, frutto di un abbraccio mortale tra potere temporale e spirituale, Kirill deve le sue ricchezze, che le sanzioni si pongono l’obiettivo di sanzionare, qualora possedute in Paesi occidentali. Tra ville, yacht, orologi d’oro e conti svizzeri, la Novaya Gazeta stima che le ricchezze del patriarca si aggirino dai 4 agli 8 miliardi di dollari. In gran parte sottratti alla chiesa, almeno secondo Sergej Chapnin, ricercatore di Studi Cristiano Ortodossi presso la Fordham University e licenziato nel 2015 dal ruolo di direttore della rivista ufficiale del Patriarcato di Mosca. Questo sembra interessare poco i fedeli russi, che chiudono entrambi gli occhi in cambio di una protezione ideologico-spirituale dai valori occidentali, fondati sul peccato, e la penetrazione della propaganda Lgbtq+ nel mondo russo. L’interpretazione del cristianesimo di Kirill è fortemente intrisa di nazionalismo – appoggia tutte le teorie politiche del governo russo, compresa quella della visione di ucraini e russi come un unico popolo – all’interno di un patto che garantisce protezione reciproca sia alla Chiesa che al Cremlino, tanto che sarebbe superficiale parlare di semplice sottomissione di Kirill a Putin. Quest’ultimo, negli ultimi ventidue anni, ha più volte usato la religione per legittimare il proprio potere di fronte al popolo russo.
La posizione della Chiesa ortodossa ha riaperto forti crepe anche con il Vaticano; la visita del pontefice di Roma a Mosca, prevista ad inizio anno, è stata rimandata. E ora resa ancora più improbabile dalla recente intervista di Papa Francesco in cui ha detto che Kirill «non può trasformarsi nel chierichetto di Putin». Sarebbe, tuttavia, illusorio pensare a una totale incompatibilità tra le chiese di Roma e Mosca. Le uscite reazionarie e omofobe di Kirill non oscurano una sostanziale visione comune di preoccupazione per il destino di società sempre più secolarizzate e scristianizzate. In una dichiarazione comune a Cuba nel 2016, i due capi spirituali avevano emesso un documento comune in cui si lamentavano della crescente perdita di influenza della Chiesa nella società, la crisi dei valori della famiglia e l’ascesa di quelli individualisti, legati sia al consumo materiale che al diritto all’aborto, alla procreazione assistita e all’eutanasia. La differenza tra le due visioni del mondo è sostanzialmente di metodo: pacifico e riformatore a Roma, violento e livoroso a Mosca.